Conclusioni di Nichi Vendola* alla Presidenza Nazionale del 29/07/2013 che avvia il percorso congressuale di SEL
La ragione per cui considero particolarmente significativa la relazione di Ciccio Ferrara è che ha sgombrato il campo della nostra discussione dal pettegolezzo, dal chiacchericcio, dalle dietrologie, perché ci ha proposto un’agenda schiettamente politica. L’ha fatto con spirito di verità e ha chiesto a tutti noi, impegnati dentro un processo congressuale che comincia oggi, e comincia col piede giusto, di ragionare autocriticamente su quanto anche noi siamo un prodotto della crisi e su come soltanto una reattività consapevole, fatta di autoeducazione, di incivilimento del dibattito, soltanto per questa via possiamo riuscire ad affrontare i nodi sul terreno più corretto, che non è quello della psicologia, ma è quello della politica. Persino le problematiche di carattere individuale, personale, psicologico, sono sempre destinate ad amplificarsi quando vien meno la politica. E io credo che viviamo un’epoca nella quale in qualunque luogo collochi due individui, hai la prefigurazione di una modalità fatta di giustapposizione e di conflitto. Un’ordinaria modalità di guerra sommessa, di guerra non dichiarata, ma in realtà praticata. Qualche giorno fa sul quotidiano Il Manifesto, un intellettuale, Favilli, ha fatto un ragionamento molto crudo, molto aspro, addirittura sulla mutazione antropologica che si è determinata con il mutare delle forme di selezione dei gruppi dirigenti dentro la politica della sinistra storica. Su come si sono prefigurate le carriere, su come la scuola, che per l’altra generazione era stata il carcere e lo studio, il carcere fascista e lo studio, la costruzione dei movimenti di lotta, dei movimenti di resistenza, quella scuola invece si è trasferita nel marketing dell’autopromozione individuale. Ma lo dico non perché ora il più fustigatore di tutti è quello che vince la partita dell’autofustigazione tra di noi. No, lo dico perché a questa questione non possiamo rispondere evocando genericamente la nostalgia della comunità. Tanto meno immaginando che il modello di comunità possa essere la comunità del Movimento 5 Stelle, che dentro di sé ha esattamente quelle caratteristiche di integralismo culturale che certo rendono più forte la solidarietà interna ad una comunità, ma è una solidarietà nevrotica, è una solidarietà che a me così non piace. Vorrei la solidarietà di chi non rinuncia a praticare non solo il confronto interno, ma la ricerca, il cammino nei territori delle altre culture. Badate, il settarismo che noi vediamo nel Movimento 5 Stelle è una malattia che noi possiamo raccontare per come la conosciamo, non soltanto per averla in qualche maniera studiata, ma per averla ancor di più attraversata. E quindi attenti.
Oggi siamo in grado di costruire l’agenda della nostra discussione. Ciccio lo ha fatto, l’ha fatto benissimo e se ci pensate le attese della vigilia di questa riunione sono andate tutte smentite. E’ stata un’ottima riunione, con un livello di consapevolezza importante, con – se posso dire – un’unità di fondo, non posticcia, non ipocrita, non di facciata. E anche i punti di dissenso sono utilissimi perché servono - come posso dire? - a marcare meglio il confine e il territorio della nostra agenda. Io penso, soprattutto, rispetto al primo intervento, all’intervento di Gianni Mattioli in parte ripreso da Grazia Francescato e da Paolo Cento. Io che ho riletto le frasi della relazione di Ciccio, so benissimo che li dentro c’è una critica radicale alla nozione di crescita assunta come un feticcio, come un totem. E che il punto è esattamente lo scarto culturale e politico che si determina qui, pensando che noi facciamo della qualità della vita l’ingrediente fondamentale per immaginare uno sviluppo che non sia dissipazione di beni finiti, che non sia devastazione non solo degli ecosistemi, ma anche del senso del vivere associato, della relazione tra la specie umana e le altre specie, tra il mondo vivente e anche tutto ciò che è inerte ma è prezioso per noi in quanto deposito di memoria e di cultura. Ecco, quando Ciccio ha detto conversione, forse non ha usato l’aggettivo ecologica non perché ne volesse ridurre la portata, ma proprio per ampliarne a di smisurata la portata, prefigurando proprio il tema reale, che è quello del salto di civiltà che oggi è necessario compiere, alla luce del fatto che siamo dinanzi ad una crisi del tutto peculiare, più che alla somma di tante crisi. Certo, c’è un’articolazione della crisi, basta scorrere la cronaca di oggi, di queste ore, per vedere come la crisi abbia una molteplicità di aspetti determinanti, si avvolge attorno alla vicenda dell’umanità con spire variegate di tante colori. Ma se ci pensate bene è proprio la fine di un mondo, e io che penso che bisogna analizzare la specificità di ogni crisi, credo che dobbiamo però essere capaci di connetterle, perché esse insieme ci consegnano quella che tanti anni fa, negli anni Trenta, osservando le vicende del mondo, fu definita, con grande pregnanza analitica, crisi organica. La crisi organica non significa una crisi semplicemente globale; crisi organica significa una crisi che è capace di produrre le forme della propria egemonia e del proprio dominio nel mentre si spappola il mondo che pure era stato costruito dalla medesima forma di egemonia e di dominio. Il capitalismo, lo dico senza connotarlo ora come capitalismo finanziario, capitalismo industriale, come fordismo o post-fordismo. Ma il capitalismo è in grado oggi più che mai, proprio all’apice della rivoluzione liberista e nel cuore della crisi del liberismo, di usare gli ingredienti della propria crisi scaricandoli tutti, in maniera violenta sui soggetti che furono già le vittime di quella che fu l’egemonia del liberismo. E quindi noi ci troviamo in una crisi che è una contraddizione pazzesca. Non stiamo vivendo il congedo dalla stagione del liberismo, stiamo vivendo la stagione della crisi del liberismo che ci chiede di fare l’ultimo passo, in termini di devastazione della civiltà del lavoro, della civiltà ambientale. Cioè ci chiede la soluzione finale, un mandato senza condizioni, fino al punto che è consentito ad una banca, la JP Morgan, di suggerire la sostituzione di tutte le Carte Costituzionali che sono state il frutto della lotta contro il nazifascismo, perché la trama di diritti che quelle Carte prospettano sono un impedimento alla possibilità di affrontare la crisi nella solita maniera: precarizzando il mercato del lavoro, riducendo gli spazi dell’agibilità democratica, e così via. Allora, io penso che dobbiamo riflettere con molta attenzione sulle cose che ci diceva Fabio Mussi, le cose che ha ripreso, con dovizia di particolari, Ciccio. E cioè su dove ci troviamo oggi. O siamo in grado di connettere lo sguardo su come la crisi si sta perpetuando e su come essa sta mutando in maniera irreversibile il volto dell’Europa, oppure di che parliamo nel nostro congresso? Oppure di che parliamo quando leggiamo i provvedimenti del Governo Letta? Io penso che è molto corretto lavorare sul terreno delle connessioni. E anche, se mi è permesso, lo dico ai compagni, capire che noi siamo entrati in Parlamento con una spinta spontanea ad immaginare che fossimo esattamente in continuità con la stagione che aveva avuto quel bel titolo: Italia Bene Comune. Badate, eravamo dentro l’ordine di idee che si poteva costruire un gruppo parlamentare unitario delle forze di centrosinistra, tanto era spinta la nostra voglia – quella che è facile oggi giudicare un errore – ma che ci ha spinto a sostenere quel progetto e a sostenere Bersani nelle primarie per una ragione. Per noi l’obiettivo fondamentale era archiviare il berlusconismo come cultura politica, come modello sociale, come fenomeno dell’immaginario, come cultura diffusa. Questa era la priorità. E anche, se posso dire, l’abbrivio di quel documento che si portava dentro alcune contraddizioni di fondo, sapendo che le contraddizioni non le risolve un gruppo di lavoro cercando le mediazioni sull’aggettivo, ma quelle contraddizioni si sciolgono nel rapporto tra la politica e la società, oltre che nella capacità dei movimenti di tenere il fiato sul colo della politica. Noi l’abbiamo fatto poiché per noi era prevalente la necessità di definire il centrosinistra come il campo alternativo al centrodestra. Proprio perché il centrosinistra era stato infettato di berlusconismo come qualunque altro corpo della società italiana. Questo era allora il punto. Ma oggi capite bene che siamo in un contesto completamente mutato. E siamo di fronte ad un governo che ha queste caratteristiche. Attenzione, che fra poco noi non dovremo più parlare del governo del rinvio, della dilazione, diciamo del governo che non scioglie i nodi. Perché il momento in cui cominceranno a sciogliere i nodi, sarà peggio. Non vorrei che fossimo i sollecitatori di una deriva, perché questo governo non può che far peggio, visto che è stretto in una morsa. Cosa può fare, nel nome di quella ideologia che oggi con l’uso del termine riformismo intende qualcosa di estraneo alla storia novecentesca di questa parola. Il riformismo di cui parliamo oggi ha le sue radici nelle innovazioni politico-culturali di Bettino Craxi, che fu a sua volta il protagonista di una rottura con le tradizioni del riformismo anche di casa socialista. E’ un riformismo che pensa che la procedura democratica debba essere subordinata alle esigenze degli esecutivi. E che gli esecutivi debbano contrattare direttamente, senza la mediazione delle assemblee parlamentari, con gli altri poteri forti. Per questa via, badate, noi ci troviamo da un lato - ecco, qui vorrei fosse chiaro un punto - davanti ad un percorso che non può che essere controriformatore sulla Costituzione per tutti i presupposti culturali che lo fondano. E se mi permettete, non voglio sentir dire che il 138 è un problema metodologico, perché non esiste un problema metodologico quando si tratta di colpire il carattere fondante della nostra Costituzione che è una Costituzione rigida e non flessibile proprio perché vuole rendere indisponibili per maggioranze di governo occasionali i principi fondamentali che sono stati scritti dai nostri Padri Costituenti. Credo che su questo noi dobbiamo essere capaci anche di una comunicazione forte all’esterno, proprio per connetterci con una battaglia impegnativa. E se permettete, anche qui, si dice: “i grillini sono più impegnati di noi nella difesa della Costituzione”. Ma possiamo cogliere la contraddizione del fatto che i grillini ogni giorno nell’attacco ai partiti e nell’attacco al parlamentarismo stanno cercando di sradicare il cuore pulsante della nostra Costituzione? Io credo che noi dobbiamo andare anche oltre lo spiazzamento mediatico e avere la freddezza sempre di concentrarci sul merito delle cose.
E dunque andiamo a questo congresso, lo dobbiam fare sapendo che non si tratta ovviamente di una conta interna. Una conta poi di che cosa? Badate, noi siamo drasticamente diminuiti come iscritti per una ragione scientifica. Mica perché la gente se n’è andata, ma perché l’abbiam mandata via la gente. Perché una piccolissima, microscopica federazione, comunque è proprietaria del destino di un microscopico ceto politico. Allargare, aprire porte e finestre, significa mettere a repentaglio il percorso delle carriere. Vogliam fare autocoscienza sul serio? Questo è un punto. E il congresso non può che essere aperto, perché l’idea che cinquanta persone che sono protagoniste di un territorio e che impediscono l’ingresso della cinquantunesima e poi della cinquantaduesima, naturalmente possono fare tutto nel rispetto più assoluto delle forme democratiche, ma quella loro realtà è respingente nei confronti della democrazia che deve significare non come votano quei cinquanta, ma come allargano il giro, a come si consente a tanti altri di entrare di arricchire, di sconvolgere pigrizie, schemi consolidati. Questo è il discorso che noi dobbiamo fare sul congresso. Quando diciamo apertura noi diciamo apertura sul congresso, apertura sulla lista per le europee. Stiamo dicendo: siamo in grado ci costruire una forma di cessione di sovranità, che non è del partito, ma che è dei ceti politici del partito? Questo è il punto su cui io intendo giocare la scommessa politica del nostro congresso. Per fare quello che dice Paolo. Perché noi abbiamo bisogno di capire che l’ecologia non è un ornamento, non è un orpello, non è un capitolo aggiuntivo e non è semplicemente un nuovo modello di sviluppo, ma è un paradigma di organizzazione della casa, delle case di cui ognuno di noi si sceglie. E questo è un luogo di cui noi siamo protagonisti volontari, lo scegliamo questo luogo. E allora possiamo guardarlo come un luogo che possa essere la sperimentazione di un’idea ecologica della politica? Quando noi l’abbiamo provato, naturalmente con grande scorno del partito, e cioè con Le fabbriche di Nichi, il successo non era soltanto di luoghi che erano dai ragazzi e dalle ragazze completamente ripuliti con il riuso dei materiali per farne opere d’arte, luoghi pensati perché la politica potesse essere accogliente. Ma poi quando abbiamo costruito il dopo-fabbrica e ci trovavamo tutte le sere duemila persone che cercavano di entrare negli spazi di una socialità immaginata e pensata in forme alternative, beh, insomma, l’abbiamo capito lì che c’era una domanda, Che la buona politica è l’organizzazione di spazi alternativi all’alienazione, alla deriva individualistica. Se poi resta soltanto la messa del Papa, o lo stadio, e non ci sono luoghi razionali di ricostruzione di dinamiche comunitarie, non produciamo buona politica. Io sono molto contento che nel nostro partito sia così forte una presenza organizzata di cultura femminista, perché naturalmente il comunitarismo è anche un rischio culturale, si porta dentro anche suggestioni mistiche. Ed allora è bello avere questa ricchezza di culture per poter costruire razionalmente la politica, i modi di esercitarla, di praticarla, di reinventarla, mentre prefiguriamo un altro tipo di società.
E allora il congresso sarà aperto, le europee dovranno essere, è stato detto, non un passaggio tattico, ma dovranno essere il tentativo di costruire la nostra comunità come partecipe di una nuova soggettività mutante e molteplice che in Europa esiste. Anche qui, fatemelo dire. Noi non dobbiamo entrare nel Partito del Socialismo Europeo per approdo ideologico. Io a questo sono contrario. Io voglio stare lì mentre non perdo nessuno dei rapporti che posso avere con coloro che non sono là dentro, ma che hanno una cultura di sinistra, progressista, europeista, come sono i Verdi in alcune parti d’Europa, alcune formazioni della sinistra come Syiriza. Scelgo un campo più largo, ma pensando che quel campo avrebbe bisogno di essere fertilizzato esattamente da quelle cose con cui non vorrei perdere i rapporti. Appunto, l’ecologia politica con la sua radicale offerta di cambiamento, la questione sociale. Noi non dobbiamo aderire ad una cosa convincente. Dobbiamo entrare in un campo largo che è il campo fondamentale di alternativa al polo conservatore, sapendo che in questo campo le contraddizioni sono grandi e il nostro compito è quello di spingere perché possano esplodere, perché c’è tutta la sinistra europea che fa i conti in maniera approssimativa, a volta in maniera retorica, ma che sente di fare i conti con trent’anni di soggezione alla superstizione liberista. E quella superstizione che porta il PD oggi a non comprendere quanto il passaggio ad esempio sull’Ilva non possa essere soggiogato alle ipoteche della lobby siderurgica che è pesantissima, che è intervenuta alla Camera, al Senato, peggiorando notevolmente il testo di un decreto che noi invece fortemente abbiamo voluto. E qui finalmente posso dirlo, la battaglia del nostro gruppo è stata una battaglia esemplare. Mi spiace soltanto che il circo equestre che è stato montato su Taranto è andato in ferie da lungo tempo e le grandi penne che hanno scritto la Divina Commedia, non si occupano più del momento cruciale di Taranto. E il momento cruciale è questo, lo dico a Gianni, a Grazia, lo dico a Paolo, perché è davvero un momento cruciale. Bisogna sapere se la valutazione di danno sanitario è la cruna dell’ago da cui deve passare il capitalismo italiano, se quella è la soglia attraverso cui si cambia la storia industriale del Paese. Certo, poi vogliamo anche sapere se è lecito che il Commissario di Governo che deve esautorare la proprietà da un ruolo nella fabbrica, debba essere l’attuale Amministratore Delegato dell’Ilva scelto dalla proprietà stessa. Cioè, una contraddizione grande come una casa. Però lì c’è non soltanto Taranto, lì c’è l’Italia. Lì c’è il sapere che abbiamo guadagnato leggendo le sentenze di Guariniello, lì c’è il dolore di Porto Marghera, di Bagnoli, di Priolo. Lì c’è la storia d’Italia. E ‘ un bisogno non di maquillage sull’industria. Ai temi che sono stati sollevati, e che sono temi non di componente, sono i temi del partito appunto, le smart city, cambiare le forme di mobilità, cambiare le forme di costruire e del non costruire, e il rapporto tra città e campagna, noi penso che su questo dobbiamo fare un investimento potente di politica e di cultura. Dobbiamo metterci scienza. Anche la battaglia internazionale: questa suggestione così inquietante che è stata introdotta nel dibattito, secondo cui dobbiamo sommare a quelli che abbiamo studiato a scuola come i continenti del pianeta terra altri due continenti fatti solo di accumulo di plastica; su questa suggestione così veramente spiazzante noi non siamo in grado di costruire nessuna battaglia politica? Non siamo in grado di dire niente di più a livello planetario? Di cucire relazioni? E il fatto che oggi scopriamo che a Fukushima è stato riversato materiale radioattivo nell’Oceano Pacifico, mentre il governo giapponese torna a scegliere l’energia nucleare, non ci allerta, non ci fa trovare le forme di una solidarietà, di una battaglia politica transnazionale sempre più necessaria?
Ecco, finisco. Penso che Franco Giordano avesse ragione quando ci ha detto che non è possibile che il vocabolario del futuro l’abbiamo lasciato alle autorità religiose. Vedete, oggi è successo qualcosa di incredibile, fatemelo dire. Perché siamo tutti quanti in attesa dell’inciampo di Papa Francesco per poter dire: “Beh, hai visto, anche lui…”. E invece ogni giorno sorprende. Oggi lo è stato in maniera particolare perché ha ucciso – ucciso letteralmente – uno dei più radicati luoghi comuni del clericalismo e cioè l’equazione pedofilia /omosessualità. Ha detto: “La pedofilia? Non è un peccato, è un reato, è un delitto”. E quindi, in qualche maniera ha scossa dalle fondamenta una Chiesa che nel segreto della confessione con quattro Ave Maria poteva nascondere gli abusi nei confronti dei minori. E poi ha detto sull’omosessualità: “Chi sono io per giudicare un gay?”. Stamattina dicevo a Fabio Mussi: non ha ancora fatto una scomunica, non ha ancora lanciato un anatema e questo è un motivo di speranza. Siamo nel pieno di un pontificato che è stato totalmente capace di invertire i segni del potere. Noi rischiamo, tutta la politica rischia, di scivolare in una forma di pragmatismo senza respiro e di reagire al pragmatismo senza respiro con la retorica della supplenza, della poesia che si deve in qualche maniera coniugare al politicismo. Noi oggi abbiamo bisogno di essere una forza di opposizione radicale nei confronti del governo Letta, perché questa è l’unica possibilità che abbiamo di ricostruire il campo del centrosinistra. Noi oggi abbiamo il dovere di rendere determinata e limpida l’avversione nei confronti di un governo che è attraversato da ombre morali. La vicenda kazaka non è un incidente ed è parente stretta della vicenda Calderoli, perché nella natura della destra c’è non soltanto il razzismo, c’è l’espulsione, l’espulsione all’ingrosso dei migranti. Una madre e una bambina kazaca sono un epifenomeno di cui si potrebbe lungamente raccontare le premesse e la catena consequenziale.
E allora io dico che noi, che immaginiamo che il nostro campo non debba che essere quello del centrosinistra, laddove pensiamo che vada costruito un compromesso tra culture e forze larghe, per noi che diciamo questo vorrei che fosse chiara una cosa, è il mio pensiero: il PD non può diventare il nostro destino. E’ la nostra scelta nella misura in cui è politicamente funzionale alla prospettiva del cambiamento e dell’alternativa. Il PD fa delle schifezze, ma finchè è in grado di portare in questo governo, che noi combattiamo, Cecile KYenge, in quella misura, per me continua ad essere ancora un interlocutore fondamentale e prezioso. Ma non è il nostro destino. Può darsi che il PD vada per un’altra strada, può darsi che il PD debba fare i conti con il fantasma del Pasok. Io penso che noi dobbiamo liberiamo il campo da atti di fede nei confronti del PD e se posso dirlo anche nei confronti del Movimento 5 Stelle. Care compagni e compagni, facciamo la tara alla violenza del linguaggio che è prevalentemente di Beppe Grillo e del gruppo dirigente. Sappiamo bene che lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto. Ma sappiamo che all’origine c’è una domanda sacrosanta e semplificata di cambiamento, che ha selezionato anche pezzi di rappresentanza che hanno riempito il nostro vuoto, o il vuoto di tutto ciò che è di sinistra. Allora il problema non è di elencare i difetti da una parte e dall’altra. Il problema è di fare politica, da una parte e dall’altra. E quanto più saremo in grado di fare politica, da una parte e dall’altra, tanto più la nostra autonomia, che è non è l’autonomia di chi si batte per lo 0,2% in più nel prossimo sondaggio, è l’autonomia di chi pensa che queste idee, che questo programma, siano necessari all’Italia. Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa, questa è l’autonomia culturale. Non una secessione dall’alleanza, ma l’idea che l’alleanza va portata in una direzione particolare.
Con questi sentimenti, devo dire che esco da questa discussione molto confortato. Era entrato molto sconfortato, per tante ragioni, molto sconfortato. E invece noi siamo un gruppo dirigente, a volte esercitiamo ciascuno per conto proprio, a cominciare da me, le funzioni di gruppo dirigente. Oggi abbiamo esercitato le funzioni di gruppo dirigente immaginando di dover dotare questo percorso di un canovaccio e anche di un’anima. Ecco, se queste sono le premesse, io credo che questo congresso che andremo a fare entro l’anno potrà essere un contributo importante per cambiare il Paese.
Le conclusioni di Nichi Vendola sono disponibili per il download in formato PDF
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