La nostra discussione congressuale avrà un significato se saremo capaci di porre noi stessi di fronte alla crisi come costruttori di sentieri nuovi, di indicare la strada giusta che può portare l'Italia fuori dal declino in cui è imprigionata. Siamo oramai al disvelamento della natura profonda del blocco sociale, politico e culturale del berlusconismo. Per questo le larghe intese mostrano fino in fondo la loro miseria, la loro impossibilità. Sgombriamo il campo da un atteggiamento che può risultare del tutto ideologico dentro il passaggio che abbiamo di fronte: non è un peccato immaginare di poter costruire un compromesso con il proprio avversario. Un Paese che venga aggredito chiama naturalmente a raccolta tutte le sue forze e chiede, in uno stato di particolare eccezione, una convergenza verso la difesa e la tutela di ciò che appare il bene comune. Ma il presupposto di quel compromesso con il proprio avversario è la condivisione di un quadro minimo di valori e di principi. Per questa ragione le larghe intese sono risultate per noi, sin dall'inizio, uno scivolamento, un errore politico grave. Un errore politico non solo per gli interessi del centrosinistra. Prima ancora un errore politico per gli interessi del nostro Paese. E questo perché la natura del centrodestra come oggi si configura in Italia confligge con i fondamenti della nostra democrazia costituzionale. Se per Stato di diritto si intende un codice di immunità per chi esprime la sublime rappresentazione dei ceti possidenti, è del tutto evidente che siamo giunti ad una divaricazione profonda dei concetti fondativi del nostro vivere associato. Se la democrazia di un paese non si fonda sul primato della legge ma su quella del consenso e della sua possibile e infinita manipolazione tramite il controllo della produzione di immaginario, allora è evidente che siamo di fronte ad un modello di società e ad una idea di legge fondamentale del tutto antitetica a ciò che è custodito nella Carta Costituzionale del nostro Paese. Siamo giunti ad un conflitto che investe in pieno le regole della nostra convivenza democratica. Per questo voglio rivolgere un appello sincero al Partito Democratico affinché insieme possiamo assolvere ad un dovere nazionale. Per farlo occorre sgombrare il campo dalla presenza di un governo che si regge sulla innaturale alleanza con il blocco berlusconiano. Sciogliere l'attuale maggioranza di governo è un atto di igiene democratica, politica, istituzionale. Abbiamo bisogno di scongelare l'Italia, e con essa l'Europa, abbiamo bisogno di scongelare il conflitto. Fare questo significa difendere le ragioni della democrazia. E' tanto più necessario quanto più il dolore sociale che percorre l'intero Paese conduce in fretta verso il rischio di una gigantesca e virulenta regressione, antiparlamentare, antidemocratica.
Noi dunque siamo pronti al cambio di fase, a cominciare dalla riforma elettorale. L'attuale legge elettorale, dentro questa crisi sociale e democratica, dentro i punti di criticità che rimbalzano precipitosamente verso le istituzioni del Paese, può essere il varco per avventure reazionarie. Appare in questo quadro francamente tragicomica la scena di Beppe Grillo che il Porcellum oggi lo vuole per vincere le elezioni. Sembra di vivere un'epifania, di assistere ad una rivelazione: il populismo che pensa di usare il Porcellum, cioè un congegno elettorale costruito a misura di difesa e di tutela di un sistema di potere, come locomotiva a cui agganciare il treno della propria rivoluzione. Ecco perché diciamo che cambiare il sistema elettorale è oggi la primaria necessità democratica che abbiamo dinanzi a noi. Ecco perché proponiamo un governo di scopo che abbia questo specifico punto come obiettivo fondamentale. Insieme all'altra grande e urgente questione: una Legge di Stabilità che rappresenti un'inversione netta di tendenza rispetto alle politiche di austerity fin qui praticate, con insuccesso economico e devastazione sociale. Quindi, chiusura definitiva della penosa vertenza degli esodati; rifinanziamento degli ammortizzatori sociali; capovolgimento di segno del decreto sull'Imu.
Noi abbiamo il dovere, con questo congresso, di collocarci in maniera efficace dentro la crisi, qui e ora, riuscendo a fare due cose contemporaneamente: contribuire alla ricostruzione di un orizzonte di valori e non rinunciare all'esercizio quotidiano della politica. Sapendo che la politica è costruzione di reti, costruzione di pratiche sociali, costruzione di alleanze e di mediazioni, costruzione di equilibri e di avanzamenti. Vuol dire anche costruzione, nell'agenda della quotidianità, del principio di speranza, della sua possibilità di essere il cemento di una nuova sinistra. Capace di pensare l'Europa come mai è stata pensata finora. Penso che per fare queste due cose insieme, per essere contemporaneamente duttili sul piano della tattica e netti su quello dell'orizzonte strategico, abbiamo bisogno di una bussola che ci orienti. Dobbiamo dirlo con più forza, con più determinazione: la nostra bussola è la Costituzione Repubblicana. Dentro la crisi, le cosiddette riforme costituzionali, per come sono state pensate e proposte, rappresentano il terreno di un'operazione di ulteriore svuotamento della democrazia. Sono scritte sotto l'eterodirezione di un blocco sociale la cui ideologia tecnocratica prevede la riduzione della politica a puro simulacro di un potere esercitato da altri sovrani, distanti da ogni agire democratico. I sovrani di un capitalismo che ha dettato alla politica le regole dello sviluppo sociale. Urbanizzazione senza qualità, trasporto su gomma anziché su rotaia, edilizia povera e insieme energivora, città appesantite da barriere architettoniche e da continue fratture delle reti di comunità, abuso del consumo di suolo, abuso della chimica nelle campagne, inquinamento industriale spinto sino alla complicità con le eco-mafie. Un capitalismo del puro consumo senza produzione, del mercato senza regole, della ricchezza senza lavoro, del parassitismo sociale vestito con gli abiti del dinamismo magico dei consulenti finanziari e dei concitati eroi delle borse, dei giocatori d'azzardo che puntano le loro fiches scommettendo sui nostri risparmi e infine sulle nostre vite. Questo capitalismo, questo insieme di protagonisti e di forme sociali e di luoghi del potere, avrebbe bisogno di essere sottoposto ad un processo politico, ad un rito di passaggio dalla menzogna alla verità, per cui si possa finalmente dire che non è vero che l'Italia declina poiché il lavoro costa troppo ed è troppo tutelato. Il lavoro è sovraccarico di incombenze fiscali, il lavoro è troppo poco formato, il lavoro è troppo fragile nell'esercitare il diritto, è troppo sconnesso ai saperi e ai luoghi della ricerca, è separato dalle proprie finalità e confinato in una crescente dimensione economico-corporativa, il lavoro è segmentato per competenze fittizie, è ipotecato dal suo moderno destino di precarietà. Per questo la sua scarsità non può diventare l'alibi sociale per una fatalistica accettazione del lavoro come luogo sempre più povero di diritti e di reddito. La centralità del lavoro, la sua dignità, il suo peso simbolico e materiale sulla scena pubblica: solo questo può aprire la strada di una riforma del capitalismo e alimentare un processo virtuoso e reale di fuoriuscita dalla crisi. Oggi il lavoro intellettuale è sempre più mescolato al lavoro manuale e siamo finalmente di fronte alla crisi del paradigma scientista e insieme di una certa retorica umanistica, oggi si aprono piste di lavoro che guardano al superamento della frattura tra mondo della cognizione e mondo della manualità, si apre cioè la grande questione dell'unità del sapere. Il co-working, le start-up, le imprese innovative nell'economia della conoscenza, la green-economy, l'autoimpresa femminile e giovanile, il protagonismo imprenditoriale degli immigrati, le banche etiche, il microcredito, la produzione di servizi, l'economia della manutenzione degli eco sistemi urbani e l'economia della cura e della relazione, l'economia delle reti intelligenti, dei flussi di comunicazione sociale, della riqualificazione smart degli spazi e dei tempi del vivere associato: oggi tutto questo ci chiede di essere ascoltato, di essere visto, di essere interrogato con profondità. Perché indica un tentativo di fuga dallo stato delle cose presenti e apre al rapporto tra lavoro e futuro.
Questo rapporto riguarda l'Italia come riguarda tutta l'Europa. L'Europa aggredita dalla crisi sta diventando un continente povero di democrazia, mediocre nella sua visione del mondo, talvolta immemore delle sue tragedie. Europa bene comune, Europa smart, Europa libera dalle nevrosi identitarie che mettono in circolazione vecchi fantasmi come il nazionalismo, il razzismo, la xenofobia. Europa inclusiva, crocevia di diritti collettivi e individuali. Un luogo, un campo, che dà valore alla persona e rispetto e protagonismo al singolo individuo. Un continente sfibrato dalla guerra dei Trent'anni, quella che ha ferito a morte il lavoro e l'welfare, che ha combattuto il debito pubblico con il sadismo sociale e la miopia economica dell'austerity. Un continente complice delle guerre balcaniche, omertoso nei confronti dei regimi autocratici, incapaci di aprirsi alla Turchia. Soprattutto incapace di una relazione viva con quella sua radice multipla, terracquea, multiculturale che è il Mediterraneo. Le elezioni europee sono la prima prova di credibilità dell'apriti Sel che insieme, collettivamente, dobbiamo praticare. E' una sfida per tutti noi e la dobbiamo esercitare mentre irrobustiamo i nostri colloqui culturali e politici con i Verdi europei, con la Sinistra Europea, con tutta la costellazione di movimenti e soggetti che sono stati al di fuori della famiglia della Socialdemocrazia europea. Mentre scegliamo come un campo largo il Partito del Socialismo Europeo non come approdo ideologico bensì come luogo nel quale contribuire a far crescere le contraddizioni fondamentali. L'Europa vede la sinistra globalmente sconfitta e perdente dopo trent'anni di simbiosi innaturale con il liberismo, dai paesi scandinavi alla sua dimensione mediterranea. L'Europa continentale, l'Europa della costa, l'Europa che perde ovunque, e il socialismo, la socialdemocrazia, il laburismo, cioè le forze fondamentali della sinistra in Europa, avvitate nelle proprie crisi, chiuse dentro le proprie contraddizioni. Qui, dentro questo campo in costruzione dell'Europa e della sinistra, si misura la sfida dell'aprirsi di Sinistra Ecologia Libertà all'attraversamento di domande, di culture, di contraddizioni. E qui è anche il nodo del rapporto con tra noi e il Partito Democratico. Il Partito Democratico non è il nostro destino, non è il nostro male oscuro. E' il nostro alleato quando c'è credibilmente lo spazio dell'alleanza. E l'alleanza non è mai la nostra prigione, perché l'orizzonte del governo non è la nostra capitolazione, né la perdita dell'innocenza. Dobbiamo chiederci: qual è la nostra utilità? Utilità sociale, utilità politica. In genere le domande che ci facciamo sono altre, sono domande esistenziali: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sono domande interessanti per noi, un po' meno per chi è fuori, per chi è disincantato, per chi è smarrito, per chi è disperato, per chi non ha interesse più, per chi non crede più. Qual è allora la nostra utilità sociale? La nostra carta di identità è nelle cose che diciamo o nelle cose che facciamo e nel come le facciamo? Il congresso può essere un punto di rilancio di questa nostra ricerca. L'apertura deve diventare un costume collettivo, una mentalità e una prassi. Anche la risposta al bisogno di reciprocità, di nuovi legami sociali, di solidarietà. Abbiamo scelto una citazione, all'inizio del documento, un documento aperto, da arricchire con la nostra discussione collettiva. La citazione di quella doppia fedeltà di cui parla Albert Camus: la fedeltà alla bellezza e la fedeltà verso gli umili. Se ci pensiamo, quella frase ha il potere di cucire tutte le suggestioni con cui abbiamo scritto questo documento per il congresso. Fedeltà alla bellezza e fedeltà verso gli umili. Non è molto diverso da quello che chiedono le persone disperate dentro questa crisi.
Nichi Vendola
"C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri.", Albert Camus
"Laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva", Friedrich Hölderlin
“Laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”. Il pericolo incombe sempre più sulle nostre vite, in ogni latitudine del pianeta. E nessuno, sia esso individuo o comunità, nazione o continente, ne è escluso. Se la crisi, ogni crisi, attraversa la storia di persone e popoli mostrando ad un certo punto del suo cammino la carta delle opportunità che apre sbocchi, dischiude vie d’uscita, questa lunga crisi globale che sempre di più si avvita su sé stessa continua viceversa ad accrescere il pericolo. Lo incontriamo ogni volta che il nostro sguardo si espande oltre il cono d’ombra della cronaca quotidiana e proviamo a leggere, con la fatica e il dolore che sempre il conoscere richiede, la trama più profonda della fase che stiamo attraversando.
1. Il nodo che avviluppa il mondo e lo tiene sospeso continua ad essere quello che si intreccia tra pace e guerra. E di fronte ai lampi di un nuovo conflitto armato, in Siria come in tutto il Medio Oriente, le parole di verità, cariche di valore universale, ancora una volta non provengono dai governi né da una politica che scivola indietro verso un pragmatismo senza respiro. Giungono piuttosto da un uomo che si affaccia da un balcone per dire al mondo che la guerra non risolve nessuno dei problemi aperti, ma serve unicamente per vendere armi del commercio illegale. Quelle parole risuonano a partire da un paese, il nostro, che negli ultimi dieci anni è stato il maggiore fornitore di armi al siriano Assad. E’ il Papa a dirci, da Lampedusa o da quel balcone, che è questo il tempo di forgiare il vocabolario del futuro per rovesciare i segni del potere e dare al mondo contemporaneo che ancora non la possiede quella cultura della pace che è fondamento di ogni altra possibile cultura umana.
La guerra diviene sempre di più il conflitto entro cui si misura il controllo delle risorse naturali, a partire da quelle energetiche, in uno scenario dove i cambiamenti climatici sconvolgono natura, economie, flussi di migrazioni planetarie. Quel che la guerra porta con sé, in Siria come in Afghanistan, l’eco perdurante delle piazze in rivolta per il pane e la libertà nel Maghreb, deve spingere la sinistra verso una profonda revisione delle proprie categorie interpretative dei mutamenti in corso, delle narrazioni e del modo stesso di accostarsi alle questioni globali. Occorre avere uno sguardo cosmopolita e saperlo connettere con il nostro agire in ogni dimensione locale esso si compia. C’è un salto culturale e politico che, proprio mentre ci troviamo nel mezzo di impetuosi mutamenti che alimentano la recrudescenza di fenomeni identitari e xenofobi in tutta Europa, non è più rinviabile per una sinistra cosmopolita che si proponga di interpretare e governare la portata delle trasformazioni epocali in corso. Ci stiamo faticosamente lasciando dietro di noi un trentennio di illusoria e illimitata fiducia nel mito della crescita indistinta, della liberalizzazione selvaggia e spregiudicata dei mercati, del miraggio del profitto immediato capace di sedurre quasi allo stesso modo destra e sinistra di mezzo mondo. Ma sappiamo davvero verso dove stiamo andando?
Il cosiddetto Washington Consensus, il modello che Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno imposto ad interi continenti, dall’America Latina all’Asia e all’Africa, doveva coniugare la liberalizzazione degli scambi commerciali e la privatizzazione di gran parte dell’economia pubblica con efficienza e benessere. Il bilancio oggi è: niente di tutto questo è accaduto. Erano illusioni, erano menzogne, sono diventati ben presto inganni. Niente di tutto questo, ma povertà, crescita esponenziale delle diseguaglianze ed esclusione sociale, insieme a devastazione delle risorse naturali e dell’ambiente. Niente di tutto quello che la cultura liberista ha promesso al mondo con il suo suadente armamentario di retorica e di persuasione si è verificato, se la repentina sostituzione dell’economia reale con quella finanziaria delle transazioni speculative e dei derivati è giunta al punto di piegare le nostre vite riducendo via via i diritti fondamentali della persona. Il diritto al sapere, al vivere in salute, il diritto alla casa e al lavoro degno, all’aria e all’acqua pulita.
La crisi globale rende oggi del tutto attuale una categoria cara al pensiero di Gramsci e ripresa con efficacia da diversi studiosi contemporanei. Una categoria che ci offre una lettura critica della fase che stiamo vivendo. Siamo nell’epicentro di un inter-regnum, uno di quei crocevia della storia nel quale sappiamo quel che lasciamo ma non abbiamo ancora chiaro dove andiamo noi, dove va il mondo che abitiamo e su quale architrave si reggerà già domani. Sappiamo che il mondo dal quale veniamo è nel colmo di una crisi determinata dai mutamenti climatici, dalla perdita progressiva della biodiversità, dal depauperamento della fauna marina, dall’avvelenamento delle acque in ogni parte del pianeta. Ed è proprio la specificità della crisi ecologica a delineare uno scenario di deterioramento inarrestabile dei beni pubblici globali, dei beni comuni che rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza umana. Ci stiamo lasciando dietro un mondo che dopo la fine della guerra fredda e la caduta dei muri pareva ebbro di fiducia nella virtù salvifica del mercato, un mondo orientato e guidato dall’unica superpotenza rimasta in quel momento sul campo, quella statunitense. Ed invece ci appare un mondo nel quale presto si infrangono equilibri e irrompono nuovi protagonisti economici e politici. I paesi del gruppo dei BRICS e poi la Turchia, il Qatar, ormai attori di rilievo nel delicatissimo scacchiere mediorientale. Un mondo, ancora, nel quale la funzione predominante degli Stati Uniti perde di peso, tra promesse mancate e sguardi rivolti altrove, verso quell’area del Pacifico dove vi sono opportunità commerciali e grassi mercati da presidiare, insieme ai soliti interessi geostrategici da tutelare.
Lo stesso uso di categorie di volta in volta differenti che gli osservatori e gli analisti di politica internazionale adoperano, prima il G8 e poi il G20 e ora il G-0, ci parlano della multipolarità di un mondo entro il quale i vecchi schemi che determinavano le relazioni tra i popoli e i paesi perdono ogni giorno di valore e non assicurano alcun governo dei processi globali. Non vale più un Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stretto nelle maglie del diritto di veto delle cinque superpotenze; non vale l’Organizzazione Mondiale del Commercio; neppure riesce a valere l’Europa se arriva all’appuntamento della crisi globale priva di istituzioni politiche unitarie ed efficaci. Un mondo, infine, che proprio nella cesura di diseguaglianze, ingiustizie sociali e povertà aperta dalla crisi economica, vede crescere i germi dell’integralismo e del fondamentalismo, politico e religioso, del terrorismo, delle reti criminali transnazionali, del commercio illegale degli armamenti.
Dalla crisi sono riemersi a poco a poco e poi impetuosamente antichi odi, furori razziali, etnici, religiosi che parevano sopiti. E si sono intrecciati alle smaglianti e vacue forme della modernità, componendo una mistura pronta qua e là a divampare in qualunque momento. Nazionalismi, integralismi si combinano, si alimentano e si combattono tra di loro, sospinti da forme di fanatismo integralista suscitate o indotte, comunque legate con il doppio filo alla violenza culturicida che proviene dall’occidentalizzazione del pianeta.
Il pericolo è sempre e ancora la guerra. E questo è davvero un pericolo globale e permanente. L’idea di guerra globale permanente si è affermata già all’indomani dell’ 11 settembre, quasi fosse da lì in poi proprio e solo la guerra il metro di misura e l’elemento dirimente di ogni controversia della politica mondiale. Alla giustificazione della lotta al terrorismo e dunque all’intervento militare unilaterale con il suo bilancio fallimentare in Iraq, in Afghanistan e più di recente in Libia, è stato sostituito il principio di ingerenza umanitaria, già coniato nella guerra dei Balcani. Ma proprio gli eventi della Libia, come dell’Iraq e dell’Afghanistan, dei Grandi Laghi e del Sahel ci dimostrano che non è invece possibile costruire nessuno spazio pubblico di pace e di coabitazione senza il protagonismo diretto delle persone. Il grido di liberazione che viene da Tahir o da Taksim Square, da Tunisi e dal Bahrein, dalle piazze greche come da quelle bulgare ed ungheresi è proprio questo che ci dice. Le stesse contraddizioni che stanno segnando le differenti esperienze di socialismo di questo inizio di secolo in America Latina marcano una continua tensione tra l’urgenza di ripagare un debito sociale accumulato nei decenni passati verso le popolazioni più diseredate ed il rischio di accrescere un nuovo debito pesante, quello ecologico, per le generazioni future. In questa contraddizione si dibatte il Brasile con le sue immense risorse naturali e la determinazione con cui quell’inedita esperienza politica cerca di condurre fuori dalla morsa della povertà, della malattia, della fame e dell’esclusione sociale milioni di donne e uomini di quel paese. Può apparire un nodo inestricabile e rischia in effetti di esserlo qualora quelle ed altre esperienze politiche del continente latinoamericano prescindessero, nella loro azione di governo, dal rispetto della Madre Terra, dal riconoscimento del debito ecologico, dai diritti delle prossime generazioni come cardine di ogni attività economica e produttiva capace di segnare le politiche commerciali e di investimenti.
2. Chi può restare indietro, essere messa ai margini o persino decomporsi è invece l’Europa. Il suo primo problema si chiama democrazia. Il rischio che seriamente corre è quello di autocondannarsi a “diventare una delle tante periferie del mondo”. Si è posta di fronte alla crisi globale elevando gli interessi della finanza all’apice della propria politica, snaturando nelle politiche del lavoro e nella qualità e tenuta del welfare quel modello sociale europeo attorno al quale avrebbe dovuto costruire la risposta alla crisi stessa. Ma la miopia e l’avidità delle sue classi dirigenti sono giunte sino al punto di usare la crisi per ridisegnare l’intero modello di integrazione del Continente, coltivando sin dall’inizio il proposito di scalzare la Grecia dall’Unione, come se solo si potesse immaginare un’idea di Europa senza Atene. Un intero popolo considerato laboratorio e cavia dell’esperimento di una miscela esplosiva e velenosa, l’austerità, con cui istituzioni che si proclamano europee mandano in frantumi un Paese che oggi diviene lo specchio della nostra falsa coscienza di fronte alla crisi. Una classe dirigente che non si è posta né la preoccupazione né l’opportunità rappresentata dalla propria frontiera, quando invece avrebbe dovuto schierare proprio lì, da Tirana a Istanbul, i migliori tra i suoi mediatori culturali per vincere la sfida aperta sul terreno della cooperazione, dell’integrazione e dell’interazione. Ha risposto al fondamentalismo dell’altro, particolarmente quello islamico, con il proprio fondamentalismo occidentale, finendo per rinfocolare dentro sé stessa regressioni democratiche come in Ungheria, populismi xenofobi che lambiscono paesi di solida tradizione democratica e tolleranza culturale come quelli scandinavi, mentre la stessa l’Inghilterra ripensa al suo vecchio ruolo di potenza globale e solitaria, distante dall’Unione. Ognuno di questi problemi aperti, certo diversi tra loro, ha però in comune con gli altri l’identica chiave. La caduta di credibilità dell’Europa e delle sue istituzioni, la mancanza di fiducia delle sue popolazioni verso chi guida i processi in corso sono fattori che stanno alimentando il virus dell’antieuropeismo. Ecco il pericolo, l’involuzione che la può dissolvere.
L’antidoto può e deve venire da una metamorfosi politica dell’Europa. Non solo omologazione, ma riconoscimento e valorizzazione di quelle differenze che oggi la percorrono, come hanno percorso l’intero arco della sua storia moderna. Non solo deliberazioni imposte da maggioranze dominanti, ma rispetto e pari dignità di quella complessità etnica, culturale, religiosa, linguistica che è in definitiva la sua principale risorsa. Ma la carta del suo futuro l’Europa può giocarla sul terreno di un New Deal sociale, economico, democratico. Soprattutto ecologico. Se oggi rischia di venire messa alle corde è perché attraversa la crisi adottando modelli competitivi, sul piano economico e sociale e dei diritti, estranei alla propria storia e alla propria civiltà. L’Europa può ripartire rielaborando il suo modello sociale e civile storicamente fondato sul nuovo welfare, dunque sull’estensione della qualità della vita individuale e comunitaria, sulla coesione sociale e su una politica fiscale comune, sulla formazione di una nuova ed inclusiva cittadinanza europea. Sui quei valori di solidarietà e di cooperazione che hanno permesso ad un intero Continente calpestato e diviso da due guerre mondiali di riprendere nelle proprie mani le chiavi del progresso.
Per questa nuova Europa il Mediterraneo è una carta verso il futuro. Se l’Europa saprà rinunciare al suo centralismo occidentale, se saprà riconoscere differenze e ricchezze delle culture umane e assumere pienamente il principio associativo e cooperativo come leva della propria nuova politica, incontrerà nel Mediterraneo la sponda della sua stessa rinascita. Perché il Mediterraneo, aspro terreno oggi dei maggiori conflitti sociali, di etnia e di religione, è forse il punto dove più di ogni altro luogo al mondo si compie quella mescolanza di civiltà che l’umanità abbia mai prodotto. Una politica comune mediterranea fondata sulla cooperazione internazionale di quell’intera area potrà dare all’Europa quella forza che oggi non ha per vincere le sfide del suo futuro. Da un nuovo paradigma energetico capace di lasciarsi definitivamente alle spalle il controllo esclusivo delle fonti d’energia per una loro condivisione attraverso reti di scambi multipolari, al rapporto tra Nord e Sud del mondo che colloca il Mediterraneo ad essere il centro dell’Europa. E’ il Mediterraneo l’area culturale e lo spazio politico che può mutare la svantaggiosa e perdente opposizione tra Nord e Sud del mondo. Un’opposizione che tiene inchiodato il pianeta in una divisione che concentra da una parte, nel Nord, tecnica ed economia con cui sottomettere l’altra parte, il Sud, ad un destino di arretratezza, sottosviluppo, dipendenza, migrazioni forzate.
3. Le questioni ambientali sono ormai declinate anche in termini di pace, di diritti umani e di diritti alla sussistenza, alla sopravvivenza e all’autodeterminazione. Il dramma delle fughe da eventi meteorologici estremi e da disastri antropici, la pressione indiscriminata su risorse naturali strategiche e scarse rischiano di innescare una spirale di nuovi conflitti e guerre. Rifugiati e profughi (sinonimi), rifugiati politici (refugee) ed eco-profughi non sono un’invenzione della modernità. Oggi occorre urgentemente compiere le scelte concrete, giuridiche e culturali, per garantire la libertà di partire ed emigrare e il diritto di restare nel proprio territorio, sanciti (entrambi) dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani, riformando sostanzialmente le politiche dell’Unione Europea su asilo e assistenza, cooperazione allo sviluppo sostenibile e accoglienza dei migranti. Riteniamo che le politiche attive e gli obiettivi concreti contro gli esodi e le migrazioni forzate vadano urgentemente definiti, in particolare nel Mediterraneo, mare di transito, scambio e accoglienza. Anche il migrante irregolare non è responsabile di un reato, non sono mai possibili respingimenti in mare, le norme attualmente in vigore in Italia non sono rispettose dei diritti delle persone. Vi saranno nei prossimi due anni occasioni di confronto e scelta da parte dell’ONU. Nel corso del 2014 saranno resi noti i vari volumi del V rapporto IPCC, International Panel on Climate Change, dal primo ebbero origine la Conferenza di Rio e le convenzioni globali (clima, biodiversità, desertificazione), i curatori del quarto ottennero il Premio Nobel per la Pace. Le analisi dell’IPCC confermano l’assoluto allarme e le dirompenti sfide poste dai cambiamenti climatici (non sempre definibili all’interno di confini nazionali), da affrontare attraverso la riduzione quantificata e scadenzata delle emissioni da un lato e il miglior adattamento ai cambiamenti in atto e di resilienza in tutti gli ecosistemi del pianeta dall’altro, obiettivi e progetti entrambi impossibili senza una vera riconversione ecologica dell’economia e della società. Serve pace equa e sviluppo sostenibile, superare la logica estrema di nazionalismi militari e concorrenziali, sviluppare soluzioni innovative per affrontare i cambiamenti del clima nelle città. Le aree urbane, per l’alta concentrazione della popolazione, rappresentano zone particolarmente vulnerabili agli impatti del clima in trasformazione. Su tali discriminanti si misureranno anche i decisivi appuntamenti ONU del 2015, da una parte la verifica e l’ampliamento degli Obiettivi del Millennio 2000-2015 (fra i quali, fame, sete, povertà, infanzia), non tutti e bene raggiunti, ora da allargare agli indici di sostenibilità e ai limiti del pianeta; dall’altra parte la non più rinviabile definizione degli obblighi di riduzione dei gas serra all’interno del negoziato climatico 1995-2015 e delle più opportune strategie di adattamento. Non possiamo aspettare ancora e la stessa comunità scientifica ci esorta a non farlo. Ne va della sopravvivenza di centinaia di milioni di persone, di ecosistemi già duramente provati, delle basi stesse della riproduzione e della vita. Crediamo pertanto che alla lentezza e all’incapacità della comunità internazionale debba essere opposta la determinazione di coloro che resistono all’ulteriore sfruttamento dei combustibili fossili, delle comunità e popoli indigeni che con le loro culture ancestrali proteggono gli ecosistemi e contribuiscono all’adattamento e alla mitigazione e di quella comunità globale che già da ora pratica ed investe in soluzioni alternative. La tutela dell’ambiente, la sostenibilità e conversione ecologica fanno parte, oltretutto, di una svolta politico-culturale. Non si può aspettare che ad agire siano i governi e le istituzioni sovra-nazionali e internazionali. Sebbene le loro iniziative siano fondamentali, è necessario che ciascuno apporti il proprio contributo a partire da ora.
Ridare centralità alla dignità di donne e uomini, ai diritti degli umani e dei viventi in armonia con la biosfera, al protagonismo di persone e popoli verso la propria autodeterminazione al di là di ogni appartenenza religiosa o etnica o culturale vuol dire orientare il mondo verso un futuro di pace.
4. Se questo è lo sguardo che la sinistra ha sul mondo, allora essa deve porre in rapida discussione le antiche categorie di geopolitica, di stato-nazione, di relazioni di potenza, di interesse nazionale e di Realpolitik. Retaggi di un vocabolario che è appartenuto al lungo periodo di guerra fredda e di una vecchia politica internazionale oggi incapace di leggere e poi di governare i mutamenti per uscire dall’ inter-regnum scegliendo una diversa strada. Che è poi la strada dove la costruzione di una politica mondiale della pace ci parla delle pratiche di nonviolenza, della prevenzione diplomatica, della gestione politica e cooperativa dei conflitti, della messa al bando di armi di distruzioni di massa, del disarmo nucleare, della riduzione massima delle spese militari. Le coordinate fondamentali del governo del mondo vanno ridisegnate a partire anche dalle sue principali istituzioni. L’azione dell’ONU risulterà più efficace sullo scenario della stabilità e della sicurezza internazionale se il suo Consiglio di Sicurezza potrà agire senza veti ed essere aperto alle rappresentanze d’area regionale. L’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, agisce sulla scena dello scambio globale in una logica neoliberista e di promozione della globalizzazione delle corporations, restringendo lo spazio del governi e diffondendo iniquamente massicci sussidi agricoli al solo Nord del mondo. Le clausole che garantiscono i brevetti delle multinazionali su invenzioni che possono salvare vite umane, ridurre le emissioni di gas a effetto serra, affrontare l’emergenza climatica affermano in sé qualcosa di paradossale: il diritto di proprietà intellettuale volto al profitto precede ed esclude quello sulla natura e sull’umanità. La necessità e l’importanza del commercio è così vitale oggi che esso va sottratto ad ogni logica di puro sfruttamento, dei soggetti e della natura. I diritti umani, quelli del lavoro, i diritti dei nativi e quella della Madre Terra: ecco ciò che deve presiedere alle norme del commercio se si vuole preservare la vita.
5. Pace e guerra, le due sponde entro cui oscilla pericolosamente questa crisi infinita. E’ un nodo che oggi torna sulla scena dove si compiono le nostre vite come la questione rivelatrice, più di ogni altra, del distorto modello di sviluppo imposto all’intero pianeta dai vincitori della partita cominciata ormai trent’anni fa, il tempo di una generazione umana. Due giganteschi processi si sono contemporaneamente intrecciati a partire da allora. L’ascesa, e poi il trionfo, di questa inedita forma di un capitalismo che ha saputo farsi mondo portando la sua logica di mercato in ogni angolo di terra, invadendo persino le sfere più intime della formazione delle identità; e la crisi che ha condotto al crollo di un socialismo rivelatosi incapace di far crescere insieme libertà e giustizia sociale. Oggi la tessitura di quella trama appare compiuta e la crisi in cui siamo, la più lunga e sconvolgente, sradicante, dell’intera storia moderna, è lo specchio che ne rifrange l’epilogo. Non solo possiamo leggerla con la lente del nostro pensiero critico, ma prima ancora amaramente la misuriamo a partire dal carico delle diseguaglianze che accresce giorno dopo giorno e delle povertà che produce disegnando i contorni netti e invalicabili di un pianeta diviso in due dall’abisso che separa il regno dell’opulenza e dello spreco dal mondo vasto e crescente dei dannati, degli umiliati, vecchi e nuovi che siano.
Siamo tutti di fronte ad una sconfitta, e la sinistra, noi, portiamo il peso di una responsabilità collettiva della quale dobbiamo farci carico se la nostra sfida passa, come vogliamo che sia, dalla costruzione nuova dell’egemonia perduta. Il capitalismo che ha saputo farsi mondo ha vinto su entrambi i fronti. Quello delle trasformazioni strutturali, elevando economia e finanza a dominio incontrastato di una politica sottomessa fino ad essere esclusa dal gioco, immiserita. E ha vinto, insieme, nella capacità di edificare un immenso e diversificato apparato ideologico proprio mentre la sua cultura di riferimento – il liberismo – sventolava al mondo le bandiere del tramonto delle ideologie e con esse persino della fine stessa della storia. Il liberismo ha compiuto una formidabile innovazione conservatrice e insieme un grande inganno delle coscienze. Che ha saputo tuttavia, o forse proprio in virtù di questo, produrre un senso comune intellettuale di massa, un modo diffuso di sentire la vita, la vita reale di ciascuno, improntato al pensiero unico. Lo ritroviamo dapprima in qualche cattedra universitaria statunitense di economia e di diritto e ben presto lo vediamo occupare la scena della produzione culturale di massa e mediatica che lo diffonde con un contagio accattivante nei diversi angoli del mondo, sradicando culture e differenze, omologandole all’unico punto di vista divenuto possibile, quello del suo credo. Qualcosa che cattura entro di sé ogni possibile diverso orizzonte esistenziale. Non c’è via di scampo che non sia quella - ecco un altro pericolo della lunga crisi in corso - di vivere il proprio tempo mai come scelta o come determinazione, neppure come possibilità o tentativo, ma unicamente come destino, preassegnato in origine a ciascuno e a tutti. Questo ci dice l’ideologia dei vincitori. E destino, destino di questa nostra modernità senza qualità, del primato vacuo ed illusorio dell’uomo economico e tecnologico che sfida i processi naturali, gli equilibri terrestri, e perde, perde per l’oggi e per i secoli a venire, non è forse anche Fukushima, com’era stato anni prima Chernobyl, senza che ne imparassimo alla radice la lezione? Non siamo né forse mai saremo in grado di “misurare” il danno umano di queste due catastrofi, fino a che punto di profondità le sue tracce velenose si imprimeranno nel succedersi delle generazioni future. Ecco come le parole tornano. Catastrofe. “O l’umanità cambia il suo modo di pensare o l’esito sarà la catastrofe” aveva detto Albert Einstein dopo Hiroshima. Siamo di nuovo lì, riprecipitati dentro quel punto di massimo pericolo.
“Il mondo è fuori squadra – dice Amleto -: che maledetta noia essere nati per rimetterlo in sesto”. Lo dice guardando alle vacillanti certezze del suo tempo, il tempo della scoperta di nuove terre e delle rivolte religiose, delle rivoluzioni della scienza e delle regole che smettono all’improvviso di valere, capovolgendo ogni antico ordine di un mondo in cerca di nuove architravi su cui reggersi. E’ quello il tempo in cui l’intera vita si divide e con essa la coscienza spaesata di donne e uomini. Come Amleto ci tocca la passione di pensare. Diversamente da lui sentiamo il bisogno di agire. La politica è per noi la strada.
Dove cresce il pericolo, c’è anche ciò che ci salva. E quel che ci salva, quel che può dare forma al mondo fuori sesto, altro non potrà essere che la politica. Certo, la sua crisi viene da lontano e non è mai stata come ora così profonda, mai così distante il suo agire da quello della vita reale della persona. Crisi di legittimità, di credibilità, di moralità. Delle categorie che la definiscono, dei comportamenti di chi più la interpreta, dei linguaggi e delle parole della sua scaduta grammatica, dunque di senso. Possiamo dire oggi quel che seppe vedere in maniera profetica una grande pensatrice del secolo scorso: “Prendiamo tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico, e apriamoli: al loro interno troveremo il vuoto”.
6. Occorre andare alla radice di questa lunga e profonda crisi della politica che l’ha portata sino al punto d’essere oggi per tanta parte di donne e uomini niente più che una passione triste, incapace ormai di produrre pensiero e cambiamento del mondo e valori che danno senso alla vita. Eppure c’è stato il tempo nel quale una grande politica ha interpretato il mondo misurandosi con il suo destino e legandolo con il filo di seta delle possibilità e delle speranze a quello di milioni e milioni di donne, di uomini, delle generazioni più giovani aperte al bisogno di futuro. E’ accaduto particolarmente qui, in Europa e in Italia, quando posta nel punto di equilibrio tra libertà ed eguaglianza in quel felice appuntamento della storia entro cui si è compiuta la costruzione dello stato sociale – lo snodo più alto della civiltà democratica europea - la politica ha saputo mettere in campo una ricerca di senso e un’idea di società, un comune principio di speranza umana. C’è stata una grande politica che pur attraverso errori e torti non aveva paura del mondo e lo abitava con lo scopo di trasformarlo. Quella politica ha abitato insieme il pensiero e le culture, se ne è nutrita, ha praticato l’esercizio complesso della democrazia, la contaminazione reciproca con la società civile e i suoi fermenti e movimenti. Se pensiamo all’Europa, e all’Italia con le sue peculiarità ed anomalie, in quel punto d’equilibrio dove capitalismo e democrazia si sono incontrati e stretti in un reciproco compromesso, lì c’è stata, a sancire quel patto con il proposito di governarlo, la grande politica. E’ stato il tempo di una stagione, ma così intensa, così produttrice di politica da far intravedere la possibilità che il lavoro finalmente avesse a che fare con la dignità di donne e uomini e che il diritto sociale, civile, di cittadinanza potesse riempire di nuove libertà la vita delle persone.
A rompere quell’equilibrio giunge per primo il mercato. La sua pervasività, le sue logiche esclusive di consumo, di puro profitto e di scambio sempre ineguale non fanno che torcere dalla propria parte qualsiasi processo di globalizzazione, finiscono per piegare ogni rapporto umano al mito dell’accumulo e a ritorno, ottocentesco, del lavoro sempre più sfruttato al punto di fare della vita sociale di ciascuno, e dei giovani per primi, uno spurio frammento di precarietà ogni giorno sospesa. E’ da quel momento che in luogo della grande politica ormai estromessa dalla scena, prima dall’economia e poi alla finanza, insorgono le politiche. Non è un allargamento, è un ripiegamento. La politica da lì in poi diventa piccola. Il suo è ormai un guardare il mondo, che sempre più si allontana ruotando fuori sesto, dal sottoscala del pragmatismo di giornata della pura amministrazione dell’esistente, della proceduta tecnica come suo unico orizzonte, dei programmi scritti a quattro mani in una stanza di palazzo, mentre fuori ribolle un magma incandescente di cose nuove. Con la sua lunga la scia di detriti dove paure, solitudini, rancori e rassegnazioni si accumulano ai lati delle strade che quel mercato senza più regole apre davanti alla sua corsa, in ognuno dei punti cardinali del pianeta.
Questa politica ben presto perde tutto. Forme, simboli, pratiche, agire, idee, partecipazione, rappresentanza, storia, memoria. Perde soprattutto le parole attraverso cui nominare, cioè interpretare e capire, il mondo che sta mutando. Sembra ormai diventata un guscio vuoto. Il suo lessico grigio diviene un gergo da urlare a chi, sempre più stancamente, segue i suoi nuovi ristretti sentieri. Accumula sconfitte senza mai che le sue classi dirigenti, ora diventati ceti politici, rendano veramente conto e passino la mano. I luoghi pubblici delle istituzioni democratiche diventano serbatoi di puro consenso elettorale dei partiti che le occupano guardando verso la direzione degli interessi forti, colludendo con quelli illegali e producendo gruppi di pressione, cordate interne, ogni giorno di più rinchiuse nei palazzi di un qualsiasi potere da occupare e presidiare. E’ un mutamento che non riguarda questo o quel paese soltanto. C’è un comune denominatore che traccia un medesimo segno negativo in tutto l’Occidente, se è vero che mano a mano che le decisioni sul mondo traslocano verso la finanza e verso i mercati si svuotano sovranità e democrazia di stati nazionali e di organismi internazionali. E’ la democrazia partecipativa che in Occidente, qui dove è stata inventata e a lungo praticata, indebolisce la sua carica di rappresentanza. A partire dall’esercizio primario che la fonda, la partecipazione al voto dei suoi cittadini. Negli Stati Uniti, in diversi paesi dell’Europa, tanti snodi decisivi della vicenda politica marcano il distacco crescente dell’opinione pubblica verso la scelta dei propri rappresentanti e quel che era adesione, partecipazione, comunità democratica si tramuta in consenso passivo, astensione, fuga. Ma date a finanza e mercato le responsabilità che la vicenda della crisi assegna loro, è un fatto che pesa come una colpa la rinuncia della politica, delle sue classi dirigenti, a contrastare quelle responsabilità con un’idea di sé stessa come progetto di società, come strumento di trasformazione.
7. Le politiche cosiddette di austerità ne sono una prova. Dal Six-pack al Fiscal Compact l’imperativo del pareggio di bilancio e delle politiche di austerità sembrano essere l’unica dimensione possibile per questa Europa “rigorista” a scapito delle politiche espansive ed anticicliche in grado di rilanciare l’occupazione, sostenere un green new deal e attraverso politiche fiscali condivise e nuovi strumenti come la Tobin tax giungere a finanziare misure di welfare quale il reddito minimo garantito. L’estensione delle forme di lavoro precario richiede, insieme alla lotta per contrastarlo alla radice, l’adozione del reddito minimo garantito come forma che dia continuità di reddito e opportunità di formazione e autodeterminazione ai giovani, sottraendoli ad una dipendenza generazionale che umilia ogni loro progetto di vita. Quelle politiche imposte dalla finanza e adottate prontamente dai governi di mezzo mondo infatti, presentate come inevitabili dagli stessi ambienti economici e finanziari che non avevano né previsto né contrastato la crisi, hanno portato al massimo grado di apertura la forbice tra povertà e ricchezza. Questo è avvenuto nel cuore dell’Europa e da noi, in Italia dove più che altrove sono state presentate come farmacopea e terapia “naturale” pronta a guarirci dalla crisi. Sono state, viceversa, l’occasione per riaprire quella partita del Novecento segnata, come abbiamo visto, dal compromesso tra capitalismo e welfare democratico. Su quel modello di welfare le politiche di austerità hanno puntato dritto considerandolo un boccone da spostare e poi da spartire sul mercato. Il taglio indiscriminato della spesa pubblica, il trasferimento di parte consistente del reddito delle famiglie a favore di banche e imprese, il ridimensionamento del welfare, il forte aumento della disoccupazione e il conseguente peggioramento dei salari, hanno accresciuto diseguaglianze di cui soltanto riusciamo a misurare l’unico dato quantitativo ma non la portata esistenziale per ciascuno di noi di ciò che con quelle politiche è andato e andrà nel tempo perduto, quei valori immateriali che mai nessun PIL riuscirà a indicare. Le politiche di austerità si sono esercitate, con perizia “tecnica” come quella applicata dal governo di Mario Monti, a ridurre le tutele esattamente nel momento in cui le persone esposte al marasma della crisi più ne avevano bisogno. Ecco un valore immateriale che le politiche di austerità hanno ingigantito: la mancanza di senso del futuro di chi le ha subite, la paura delle famiglie, dei giovani come degli anziani, delle persone sole alle prese di come materialmente vivere domani, il giorno dopo.
Queste politiche hanno anche per questo messo in luce la peggior classe dirigente che l’Europa abbia espresso, già nel fatto di aver svalutato un termine – austerità – adoperato in passato da altre figure della politica europea senza alcun intento monetarista ma come idea di giustizia sociale e di sostenibilità. Olof Palme intendeva le politiche di austerità come mezzo per cambiare i rapporti ineguali tra Nord e Sud del mondo; Willy Brandt come una politica capace di aprire la strada non più del conflitto ma della cooperazione tra i paesi in via di sviluppo; Enrico Berlinguer come critica alla società opulenta, e Gro Harlem Brundtland pensava all’austerità a partire da un concetto – lo sviluppo sostenibile – che definisce “lo sviluppo” come “ciò che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Le politiche di austerità imposte e subite in questi anni non sono però soltanto inique. Esse rendono del tutto evidente come la loro presunta oggettività economica, smentita dai fatti reali, sia stata applicata in modi diversi a seconda dei diversi paesi. Negli Stati Uniti dove la crisi ha avuto inizio e dove il deficit delle banche è ben più elevato che in tutta la zona dell’euro non c’è stata alcuna politica di austerità paragonabile a quella europea. L’accordo che impedisce alla potenza americana di cadere nel baratro fiscale (il fiscal cliff ) contrasta la recessione elevando le tasse sulle rendite finanziarie e sui dividendi, toccando i ceti più ricchi e risparmiando la classe media. Provvedimenti che vengono approvati dai mercati finanziari del mondo, gli stessi mercati che impongono, servendosi di agenzie di rating del tutto compiacenti, la strada inversa da noi. Quelle politiche si scaricano tutte verso l’Europa e ciò segnerà il suo arretramento sul piano economico negli anni avvenire. In Italia l’austerità ha avuto, proprio in uno del passaggi più drammatici della sua storia sociale, soprattutto il volto di Mario Monti e del suo governo tecnico. Ricette economiche presentate come bene patriottico e interesse nazionale, sbandierate come scelte tecniche obbligate e politicamente neutre dei problemi esistenti sul tappeto. Scelte contrabbandate come indispensabili dentro quella perpetua emergenza tesa ad accreditare la crisi come una condizione permanente, senza che mai sia data la possibilità di risalire alle cause e alle colpe. Esse hanno determinato decisioni sul mercato del lavoro, sulla politica fiscale, sulla distribuzione delle risorse e della ricchezza del paese, senza che questo al contempo ci abbia fatto fare un solo passo in avanti per uscire dalla recessione che da anni si abbatte su di noi, la più alta dell’Europa.
8. Ma più di tutto pesa, e peserà, sulla vita delle persone, sui destini futuri particolarmente dei giovani e delle donne, e accrescerà ancor di più la mortificazione cui è stato sottoposto il lavoro nella lunga stagione delle politiche neoliberiste fino alla definitiva sconfitta che rischia di subire adesso dalla crisi. Il gigantesco spostamento di reddito avvenuto in pochi decenni dal salario al profitto, la caduta tanto di stabilità del lavoro come dei diritti e delle tutele del lavoratore, l’emergere prepotente di una precarietà che produce incertezza di vita, tutto questo ha davvero ridotto lavoro e lavoratore a pura merce, tolto loro dignità e futuro. E’ soprattutto attorno al lavoro che la politica neoliberista ha agito per cambiare alla radice i rapporti sociali in ogni singolo paese d’Europa e particolarmente, ancora una volta, in Italia, dove la soluzione “tecnica”, “politicamente neutra” del governo Monti è stata quella, del tutto inefficace e socialmente dannosa, di voler contrastare la crescente disoccupazione aumentando a dismisura la precarietà del lavoro (mascherata dalla mera evocazione della flessibilità), finendo per ridurne i costi a tutto vantaggio dei profitti d’impresa, senza creare alcuna nuova occupazione. Si è poi proclamata, da tanta parte della scienza economica di scuola liberista, la fine del lavoro operaio come di quello dipendente, trascurando e tacendo il fatto che proprio nell’ultimo ventennio la forza lavoro mondiale è invece pressoché raddoppiata per effetto della spinta dei paesi emergenti. In Asia, in India, in Cina, soprattutto. E nessuna delle istituzioni finanziarie esistenti si è posta dinanzi a questo potente fattore sociale di dimensioni globali per governarne le contraddizioni che portava con sé. Il lavoro, sotto l’egida del modello liberista, alimenta paradossalmente le nuove diseguaglianze, se dentro la globalizzazione che ogni cosa unifica e accomuna, bassi salari e basso costo del lavoro in una metà del pianeta innescano la più brutale competizione con quelli dell’altra metà.
Da una crisi che non è solo economica né solo finanziaria ma di tipo strutturale, crisi di un intero modello di sviluppo che implode a partire dal fallimento del mito dell’autoregolamentazione del mercato, si esce soltanto rovesciando il paradigma che fin qui l’ha sostenuta. Abbiamo assistito, dentro questo paradigma neoliberista, al paradosso di un sistema economico mondiale che giunto al momento del crollo viene tirato per i capelli, e salvato con formidabili sostegni alle banche, da quegli stati nazionali che il medesimo sistema, in tempi di espansione, metteva all’angolo. E all’altro paradosso, tutto politico, di una sinistra che timida e subalterna resta a lungo in silenzio mentre la destra arriva ad appropriarsi di un ritorno alle politiche stataliste, persino keynesiane, mettendo una distanza tra sé e l’ideologia liberista di cui pure si alimenta.
9. Un nuovo modello economico e sociale come risposta alla crisi può essere messo in piedi solo da una grande politica, come è quella che si intreccia con la vita delle persone, delle comunità, delle istituzioni democratiche e con esse mette in moto la leva del cambiamento non solo sociale, umano. Un nuovo modello economico e sociale ha nei beni sociali e nei beni comuni i suoi pilastri costitutivi su cui orientare innovazione e ricerca scientifica, crescita sostenibile, mantenimento della biodiversità, riduzione della dipendenza energetica e lotta allo spreco, agli inquinamenti e all’uso predatorio o semplicemente inefficiente e delle risorse della natura. La natura di “bene comune” non riguarda la tradizionale distinzione tra lo Stato da una parte e il Mercato dall’altra, o quella tra pubblico e privato, ma introduce una dimensione più complessa che interseca anche la grande questione della proprietà dei beni, non già per riproporre la necessità imprescindibile del suo superamento, bensì per affermare che la proprietà, sia pubblica che privata, ha un contenuto massimo oltre il quale non può spingersi perché è lì che si apre lo spazio di tutti (il bene comune) segnato dai diritti fondamentali: il diritto alla vita, alla salute, al paesaggio, all’ambiente. Il L’acqua in particolare, è un ottimo esempio (analogo ragionamento riguarda ormai anche il suolo, inteso come terra feconda): l’acqua è il “principio” della vita, il nesso originario, inestricabile ed evolutivo, tra vivente e non-vivente e tra vivente umano e vivente non-umano. Quasi tutti i conflitti in corso hanno stretta connessione con il controllo delle risorse idriche. Tutti i cambiamenti climatici provocano sconvolgimenti nei cicli idrologici. La stessa drammatica crisi economica ha conseguenze di emergenza immediata per chi soffre sete, fame, povertà. Sinistra Ecologia Libertà ritiene che le politiche attive e gli obiettivi concreti per l’acqua come diritto umano e bene comune del pianeta Terra sono ancora poco presenti nei negoziati internazionali, nelle politiche europee, nella normativa italiana. Un diritto all’accesso all’acqua riguarda ogni vivente, più che un diritto è una condizione della sua esistenza, sopravvivenza e riproduzione. Piante e animali, individui e specie, non umani e umani senza acqua non si sa cosa siano e certo non vivono. Ogni oggetto, ogni servizio, ogni bene può essere calcolato in termini di acqua utilizzata, inquinata, trasferita per produrlo. L’ONU si è già dotata di un coordinamento sull’acqua, UN-Water, sempre più positivo ed efficace che dovrebbe diventare pienamente autonoma dal processo privato-pubblico del World Water Council (WWC). Servono un’Autorità Pubblica Mondiale per l’acqua e serve un piano globale delle Nazioni Unite che vada verso acqua minima vitale da garantire a tutti, impegni vincolanti contro la sete, proprietà pubblica basata sul diritto umano e sul bene comune, principi pubblici di qualità gestione e controllo, attenzione agli equilibri delle specie e degli ecosistemi. E’ un modello che sviluppa lavoro, lavoro nuovo e qualificato, lavoro creativo verso un altro uso degli spazi urbani, delle relazioni tra le persone e della cura di sé, dell’età adulta come dell’infanzia, dell’adolescenza e della non autosufficienza, dei saperi. La logica di questo modello di riconversione, dell’economia, della produzione, della società, del territorio e del modo di vivere delle persone non dipende prima di tutto dalla centralità né del profitto né della competizione, ma da una equa distribuzione dell’insieme delle risorse e dalla cooperazione come metro di regolazione delle relazioni umane e sociali.
10. La conversione ecologica dell’economia guarda alla vita e alle condizioni di esistenza delle persone, chiede un cambio del modo di pensare che comincia dalla necessità di “riconoscersi comuni debitori della biosfera”. Essa conduce la politica, e la sinistra, sulla strada del mutamento dei paradigmi di benessere e di sviluppo che per lungo tempo ha coltivato. E’ un processo che va verso il territorio poiché il suo scopo è ridurre al massimo la distanza tra produzione e consumo. Un ruolo determinante in questo processo di conversione è quello della ricerca e dei saperi attorno a questioni decisive come l’energia, l’agricoltura, l’alimentazione, la mobilità, il territorio. Una ricerca ed un sapere orientati su questi temi hanno più efficacia quanto più si sviluppano a contatto con i protagonisti della conversione: i governi del territorio, le imprese, le associazioni di cittadini, nel segno di una nuova democrazia partecipativa. La conversione è il cuore del nostro progetto politico, la risposta propositiva della critica radicale al liberismo e alle sue politiche. E’ un progetto che si nutre della fecondità di un pensiero ambientalista capace di produrre elaborazioni e buone pratiche, come quelle ad esempio che ci sono state trasmesse, nel nostro Paese, da figure come Alex Langer , Antonio Cederna, Laura Conti. E’ un progetto che già si delinea nelle azioni di amministrazioni locali virtuose e di imprenditori che fanno dell’innovazione il centro del proprio lavoro, pur nella difficoltà di accesso al credito che ne limita la portata. Proprio a partire dalla crisi e dai suoi devastanti effetti si sono sviluppati nuovi movimenti capaci di pratiche e di relazioni innovative tese al superamento della contraddizione tra produttore e consumatore e all’affermazione di una nuova economia solidale. Il progetto di conversione dell’economia chiama altresì in causa lo sviluppo di una nuova coscienza soggettiva, quella ecologica. Essa ci conduce a pensare l’ambiente come un ecosistema, una totalità vivente che si organizza. E’ la coscienza, inedita, della dipendenza della nostra stessa autonomia umana. Con queste realtà ed esperienze, con questa ricerca, occorre misurarsi sulla strada della costruzione del progetto di conversione ecologica che è anche attenzione profonda al territorio nella sua interezza e complessità e perciò alla natura, alla terra feconda, ai luoghi abitati; che è investimento per il futuro; che va applicata in particolare alla città sede delle più forti diseguaglianze, dove la rendita divora terreni permeabili causando dissesti idrogeologici sempre più frequenti e devastanti. Perciò la prevenzione e la cura del territorio sono le opere primarie che producono nuova e buona occupazione e attuano una sana riconversione del settore edilizio orientando in modo diverso gli attuali investimenti speculativi causa di gravissimi danni, non solo al territorio, ma all'economia del Paese
11. Accanto a ciò occorre una riconversione della politica che assuma il punto di vista della cura democratica come spazio dell’agire politico, come costruzione di socialità a partire da una passione per il bene che rivisita il modo in cui i bisogni vengono definiti, la qualità delle relazioni secondo una reciprocità e un “quotidiano altruismo”. Troppo a lungo la politica, e le politiche maschili, si sono curate delle dinamiche e dei luoghi del potere anziché mettere “cura”, nel loro agire, al bene comune e ai beni del mondo. E’ dalle radici che è venuta questa crisi, solo operando alle radici potrà venire la sua giusta soluzione. E alle radici c’è una questione di eticità sociale e delle persone, c’è la questione della responsabilità nei comportamenti delle istituzioni come degli individui di fronte alla natura, all’ambiente, agli altri. L’uscita dalla crisi allora non può essere confinata nei suoi aspetti puramente tecnici ma va aperta alla domanda fondamentale dell’uso giusto della libertà, dell’eticità. Ecco perché serve una conversione. Pensare, organizzare, avviare, governare un modello del tutto nuovo di riconversione è quello che la politica, la grande politica, deve fare se vuole ridare umanità, senso e futuro alle nostre vite sospese di oggi.
12. La sinistra dentro la crisi è stata a lungo senza parola e ancora adesso non ha trovato quelle giuste, quelle vere, le parole che rispondono al bisogno primario di definirla. Qui, nel tumulto del mondo che cambia tutto, fin quasi alla radice della sua stessa civiltà. Ed è qui che la sinistra deve dire chi è, il punto in cui si trova dentro questo sconvolgimento che non finisce mai, dire che cosa si lascia dietro e che cosa vede davanti a sé, il punto preciso da cui rimettersi in cammino. Deve insomma partire da una critica e da una rivisitazione di se stessa. Con un atto di coraggio, culturale prima ancora che politico e organizzativo, perché è lì, sulla strada delle idee e dei pensieri lunghi, che ha iniziato ad abdicare e a perdere il terreno sotto i piedi. Le sue sconfitte, anche quelle recenti, vengono però da più lontano. I suoi ritardi verso la cognizione della metamorfosi del mondo precedono la crisi e quando questa quasi d’improvviso arriva la trova in silenzio, messa come al riparo dai suoi mascheramenti, dalla timidezza dinanzi al nuovo, quasi da un senso di vergogna di voler stare ben piantata nelle proprie radici fondative, eguaglianza sociale e libertà degli individui. Una rimozione profonda della questione sociale, un cedimento colpevole sul fronte delle libertà e dei diritti. Senza più la forza d’urto di queste due sponde ha perso ogni elemento di alternatività.
13. Si è dibattuta tra riformismo e radicalismo scontando la propria subalternità, culturale e politica. La parabola delle due sinistre le riporta al punto di partenza dopo che entrambe si sono guardate dinanzi alla grande mobilitazione dei movimenti no-global e di quelli delle donne, delle manifestazioni pacifiste ed ecologiste a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. Seattle e poi Genova reclamano questo tema di fondo, presentandosi come un potenziale maggioritario collocato nel cambiamento, un cambiamento dal segno, in quel momento, planetario. Il loro universalismo, certo ancora spurio nelle diverse forme cui dà vita, allude però a tutte le questioni globali poi esplose con la crisi e pone una domanda di trasformazione generale senza trovare una offerta, una risposta adeguata al suo livello. Lì si è posizionato l’avversario, con grande tempestività politica e abilità culturale. Per la sinistra quei movimenti hanno rappresentato un’occasione mancata nel bisogno che essa aveva di ripensare culture e politiche, mentre quella stessa spinta apriva nuove strade di alternativa di governo in tutta l’America Latina.
Il ripiegamento è avvenuto su entrambi i terreni, quello del riformismo e quello del radicalismo della sinistra. Si è guardato alle “riforme condivise”, specie in campo economico e sociale, come se la natura dei problemi richiedesse soluzioni tecniche, neutre, e non fosse invece materia del tutto politica, messa in atto di identità politica e di alternativa politica insieme. Al riformismo della sinistra è mancata quella radicalità che presuppone coraggio delle scelte, capacità di stare dentro la complessità, pratica del conflitto senza il quale ogni riforma si tramuta in uno slittamento verso le posizioni della destra anziché rappresentare un avanzamento della società.
14. C’è invece un riformismo che sa darsi una visione critica e radicale della società, che punta a scelte alternative a quelle dell’avversario e del suo opposto sistema di valori, un riformismo che dice cosa e chi intende rappresentare dentro il conflitto e il cambiamento. Ma il riformismo che assume ogni compatibilità data, che fa propria l’idea della scarsità di risorse senza andare alla radice dell’iniqua e gigantesca questione redistributiva che si sta giocando dentro la crisi, questo riformismo non darà alcuna risposta alla crisi sociale che sconvolge il profilo di un paese come il nostro. Si posizionerà sulla difensiva, come nella partita del welfare dove non riesce ad andare più in là di risorse da razionare e servizi da sforbiciare, cedendo alla logica del proprio avversario di trasferire beni primari come istruzione e salute sul mercato, come se potessero avere un qualunque valore di scambio al pari di una qualsiasi altra merce.
Un discorso improntato ancora una volta alla retorica delle “riforme condivise” ha finito per assimilare sempre di più le posizioni di partiti, e di governi, di sinistra e di destra a quell’idea distorta e rovesciata di riformismo che ha fatto prevalere l’ideologia della dismissione, della privatizzazione dello spazio pubblico, delle liberalizzazioni in gran parte delle scelte compiute sotto dettatura dei poteri forti dell’economia. Tanto forti che non si è stati finora capaci di rispettare nemmeno il pronunciamento largamente maggioritario delle cittadine e dei cittadini italiani per la ripubblicizzazione della gestione dell’acqua, che SEL ha condiviso e sostenuto, promuovendo anche sul piano regionale e locale scelte e processi coerenti con la netta vittoria del sì. Nel riformismo della sinistra dentro la crisi c’è stato, oltre a tutto questo, un atteggiamento elitario che l’ha portata a mettere da parte ogni pratica di ascolto, di contaminazione e di confronto proprio con quei ceti sociali verso cui le “riforme” venivano indirizzate. Strati indeboliti dalla crisi, quelli non tutelati, altri non garantiti, strati non visibili ma diffusi nei meandri di una società che si andava velocemente disarticolando. Questo tipo di riformismo non ha mai seriamente praticato quella ecologia dei rapporti sociali indispensabile a tramutare qualsiasi riforma degna di questo nome in una reale riorganizzazione sociale. Né l’ha fatto la sinistra radicale che nel rinchiudersi sempre di più in un recinto di minoritarismo e di pura testimonianza ha preso anch’essa le distanze dalla politica del cambiamento e ha reagito alla crisi nel vano tentativo di conservare ciò che sempre più si andava perdendo dell’esistente.
15. Occorre interrogarsi sulla parabola delle due sinistre dentro la crisi, sulle loro culture politiche, sulla forte insufficienza delle forme di partito che hanno espresso. In Italia questa doppia parabola si è compiuta nell’arco di tempo dominato dalla destra e dal berlusconismo. La sinistra ha erroneamente considerato a lungo come anomalia e come dilettantismo politico ciò che invece stava diventando costruzione egemonica, messa in campo di strumenti inediti attraverso cui plasmare un nuovo senso comune e un nuovo blocco sociale pubblico, dettando così l’agenda politica e ancor più la mentalità di gran parte della società italiana. Illegalismo e sovversivismo delle sue classi dirigenti sono stati i due ingredienti di base su cui si sono prima preparate e poi combattute le numerose guerre del ventennio berlusconiano con lo scopo diretto di riplasmare la natura stessa di un nuovo Stato italiano. La guerra tra politica e giustizia, quella contro il lavoro e i lavoratori per ridurne i redditi ed eroderne i diritti, quella contro i giovani e l’accesso al sapere e alla formazione, quella del controllo diffuso dell’informazione sottomessa al potere politico vincente, la guerra contro la cultura. La guerra contro il migrante e lo straniero, divenuti oggetto di rappresentazioni falsate per poter attuare nei loro confronti politiche razziste e repressive. E la guerra verso le donne, quella più rivelatrice nel disegnare i contorni e la trama di un potere proteso a forgiare non solo il senso comune delle coscienze, maschili e femminili, ma persino l’antropologia delle relazioni tra i soggetti.
16. Qui, su questo terreno vitale della convivenza umana, lo scambio tra sessualità, potere e denaro è stato elevato a sistema del rapporto tra uomo e donna nella società, nella vita comune, nelle istituzioni pubbliche. Dinanzi a quel sistema che si andava corrompendo, snaturando, si è levata la parola femminile, quasi mai quella maschile trattenuta invece dentro l’ombra opaca della rivalsa o sospesa in un vuoto silenzio. Eppure qui, nel punto esatto in cui l’uomo si rapporta alla donna sul piano di un’immagine di sé e dell’altro e di una pratica della relazione umana, qui è una delle radici della politica da cui la sinistra dovrà ripartire. Dovrà ripartire da come ci si confronta, donne e uomini, con il degrado di questa politica e di questo spazio pubblico e privato, personale e politico, elemento primario per definire il modo in cui si struttura la nostra vita sociale, come prende forma la convivenza tra i sessi, quale grado di qualità assuma la stessa democrazia nel nostro paese a partire dalla relazione, quella tra donne e uomini, che fonda tutte le altre. Per questo occorre del tutto capovolgere, rovesciare dalla radice la rappresentazione che di questa relazione ne dà la politica di oggi, quella di un paese a misura maschile in cui torna l’omicidio delle donne. Si tende a rubricare il femminicidio come un’emergenza da arginare penalmente racchiudendolo in tal modo dentro il recinto di una questione di sicurezza, senza andare al fondo di uno snodo che chiama in causa i codici della nostra civiltà, rimessi fortemente in discussione dall’affermarsi della libertà femminile. E’ invece uno snodo che richiede la messa in campo di strategie formative, l’investimento verso la costruzione di quelle mappe cognitive, emotive e sentimentali dei soggetti nell’età in cui esse si strutturano, la decostruzione culturale dei tanti stereotipi della modernità.
17. Il berlusconismo va molto più in là, e va più a fondo, del suo diretto protagonista. E già oggi, quale che sia l’epilogo, ci consegna un paese e una società italiana sofferente, attraversata da sentimenti di rabbia e di rassegnazione insieme, di disperazione e di paura, persino di rancore. Un rancore di vinte solitudini incapaci di farsi riscatto da praticare dentro comunità condivise e aperte. Sentimenti che tracciano una linea di frattura tra l’Italia di oggi e una politica che quasi mai incontra quei sentimenti sul campo delle tante e diverse sofferenze del vivere quotidiano. Un tratto di civiltà offesa, di dolore gratuito è quello che ogni giorno emerge dalle condizioni di collasso in cui versano le carceri nel nostro Paese, con migliaia di esistenze concrete frustrate da leggi ingiuste come quelle sull’immigrazione e sulle droghe leggere, che riportano a reato di clandestinità il desiderio di speranza di una vita migliore, del viaggio e della migrazione, e puniscono con la detenzione l’utilizzo anche minimo di sostanze stupefacenti. Leggi che un paese civile deve abrogare al più presto. La vergogna delle condizioni in cui versano le nostre carceri, come la presenza dei Centri di Identificazione ed Espulsione, veri lager, sono il segno di un degrado civile dell’intero Paese.
18. L’Italia di oggi è un paese in nero. Trecento miliardi stimati di economia in nero. Evasioni, pagamenti in nero. Capitali esportati illegalmente in nero. Gran parte dei rifiuti smaltiti in nero. Le mafie, le cordate delle diverse consorterie. Il potere in nero. Il declino del paese chiama in causa l’inettitudine delle sue diverse élite e classi dirigenti, l’assenza di una visione di prospettiva entro cui proiettare il futuro dell’Italia, il suo ruolo strategico in Europa. Quando le più importanti infrastrutture di base vengono prima trascurate e poi svendute ai capitali stranieri senza vincoli di alcun tipo, quando si dismette il patrimonio dei beni pubblici come non ha fatto nessun altro paese europeo nei grandi comparti in crisi, come per Alitalia, per Autostrade o per l’Ilva, ma persino in quelli in espansione come l’agroalimentare, e quando si giunge al punto di radere al suolo il settore delle telecomunicazioni affidandone l’intero mercato italiano agli operatori stranieri, è il fallimento delle classi dirigenti del paese che viene chiamato in causa. Il fallimento politico e morale dei governi come di una gran parte di imprenditorialità, entrambi incapaci di contrastare il declino e guardare all’Italia del futuro.
19. Tra le tante crisi del paese, la crisi morale è proprio quella da cui la sinistra del cambiamento dovrà riprendere il cammino. Non basterà questo o quel successo elettorale, per quanto importante, a voltare pagina. Occorrerà capire cosa è realmente accaduto in questo ventennio in Italia, nella cultura diffusa, nelle forme di coscienza, nella gerarchia dei valori sociali. Cosa sia realmente stato questo intreccio di liberismo e di populismo che si è presentato da noi come la variante italiana di una dura rivoluzione conservatrice. Occorrerà, per mettere in campo la nostra alternativa di governo, costruire una soggettività che prende le mosse dalle nuove culture politiche, da uno sguardo d’insieme dei diversi processi in corso. Servirà a questa sinistra riconquistare quello che nelle sue due perdenti parabole ha messo prima da parte e poi smarrito, anche come consenso, ma prima di tutto come ascolto, relazione, scambio. Quel centro non tanto politico ma sociale che è il cuore vero, problema grande e aperto, della società italiana ridisegnata dalla crisi. I giovani e le donne, le periferie, i centri urbani, donne e uomini di una società quasi invisibile, sofferente, senza più rappresentanza politica. I lavoratori della conoscenza, del precariato, gli stranieri che da noi vivono e lavorano, quei ceti sociali che più sentono crescere la paura di essere esposti ad una vulnerabilità che da economica diventa esistenziale e sempre meno si sentono tutelati e rappresentati da appartenenze sociali, da legami istituzionali, dalla politica in senso largo.
20. La sfida della sinistra è proprio quella di dare una prospettiva di cambiamento al dolore sociale che la crisi sta determinando e potrà farlo se il suo nuovo riformismo, la sua cultura della mediazione e del compromesso saprà incontrasi con la radicalità, di sguardo, di analisi, di cura, che esige questo tempo nuovo che si apre. Radicalità di pensiero e di proposta, quell’andare verso la radice delle cose là dove si incontrano gli esseri sociali. Radicalità è quella politica dell’ascolto, ad esempio, dei tanti sommovimenti di una società giunta al limite di un arretramento delle condizioni di vita, prima ancora che economico. Non è in ogni caso un partire dal vuoto. La politica come passione di conoscenza, costruzione di comunità, trasformazione del reale, c’è già in una molteplicità di esperienze giovanili, femminili, del volontariato, dei soggetti sociali locali e globali che animano le lotte per i diritti, nelle professioni e in gran parte del mondo del lavoro, operaio, artigiano, della conoscenza e della formazione, nelle azioni di cura. Sono nuove forma di partecipazione politica “sotterranea” che trascendono le appartenenze tradizionali e che ritroviamo nel popolo del referendum per l’acqua pubblica come nelle azioni di sostegno alla pace in Siria. E se stentiamo ad incontrarla, questa politica nuova, nei partiti attualmente esistenti è proprio perché essi sono fin qui venuti meno tanto al compito di organizzare la partecipazione democratica quanto a quello di selezionare una classe dirigente capace di pensare e praticare l’incontro proprio con questo cuore sociale del paese.
21. La sinistra esiste quando incarna una funzione che sia utile alla vita delle singole persone. E’ a partire di qui che ha senso il suo misurarsi con la sfida del governo del Paese. La politica è il suo fine, i partiti sono uno strumento e valgono se sanno interpretare quella funzione in maniera politica. Oggi la funzione della sinistra deve avere al tempo stesso una dimensione italiana ed europea. Dentro la partita tutta aperta dello sbocco della crisi, la sua sfida è il governo, anche quando si trovi all’opposizione parlamentare, poiché del governare i processi del tempo presente la sinistra deve possedere la cultura e il coraggio di praticarla. E’ una cultura che non può contemperare la logica perdente dei “due tempi”, quello di adesso per risanare e quello che verrà, se mai verrà, per cambiare. Perché “un viaggio di mille miglia comincia sempre da un primo passo” e questo ci dice che il tempo della politica è sempre scandito dalla coerenza dei fatti che essa produce. La coerenza che quello che dobbiamo e possiamo fare oggi, fosse pure un primo passo, abbia a che vedere già qui, già adesso, con il cambiamento che richiede di percorrere mille miglia ancora.
L’Italia ha bisogno di un governo, un governo del cambiamento e di trasformazione, un governo che la porti su un’altra strada dal vicolo cieco in cui si trova da lungo tempo. C’ è un Paese che dall’inizio della crisi vede fabbriche chiudere ogni giorno, lavoratori messi sul lastrico in qualsiasi settore e comparto produttivo, giovani costretti all’inattività o alla precarietà dopo aver visto indebolito o negato il loro diritto ad uno studio e a una formazione divenuti sempre più costosi e dequalificati, salari e pensioni erosi al punto di piombare sotto il livello di sussistenza. Un Paese che si chiede quale atto, quale idea, quale prospettiva il suo governo stia praticando per uscirne fuori. Quale politica per il lavoro e per l’occupazione, per il sapere, per il territorio, per lo sviluppo del suo Mezzogiorno, quale politica sociale per invertire finalmente la rotta delle povertà e delle diseguaglianze, due macchie di cui deteniamo il primato assoluto ormai in Europa. Quale politica per l’immigrazione e l’accoglienza, che metta fine alle tragedie del mare e costruisca un’Italia ospitale e integrata. Quale politica industriale, tema cruciale per decidere che peso e che segno avrà lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni, ma che da tempo non è sui tavoli di nessun governo. La vicenda dell’Ilva è il caleidoscopio sociale e politico che rifrange l’insieme delle contraddizioni, mettendo in luce l’inettitudine di una parte dell’imprenditorialità italiana, lo snaturamento di gerarchie di valori fondanti la vita stessa quando si vuole contrapporre il diritto alla salute a quello del lavoro, quando invece lavoro e salute insieme vengono lì ferite a morte dal profitto come unico metro di misura. A chi se non alla politica nazionale, al suo governo, tocca il compito di intervenire separando finalmente la proprietà dell’azienda dalla sua produzione così essenziale per le sorti del Paese?
22. Un Paese che non ha, non può avere memoria di una sola di queste scelte semplicemente perché nessuno dei differenti governi che si sono succeduti l’ha mai compiuta. Non il governo Berlusconi che con l’oscurantismo di Tremonti e del suo credo secondo cui “con la cultura non si mangia” mette al tappeto uno straordinario patrimonio lì pronto ad essere leva di uno sviluppo maturo per contrastare la recessione. Non il governo Monti che con la tecnica accademica di Fornero inventa figure sociali mai fin qui conosciute – gli esodati – e li pone nel dramma esistenziale di vite quotidianamente sospese. Non il governo Letta, che esordisce sulla scena con il suo ministro Alfano intento ad espellere una madre e una bambina straniera contro ogni norma internazionale vigente pur di compiacere un regime autoritario con cui tenere aperto il capitolo degli affari. L’Italia ha bisogno urgente di un governo che guardi a lei, al suo dolore sociale e alle sue virtù umiliate, con la forza e con il coraggio di aprire immediatamente una strada nuova. Quelle fin qui tentate sono fallite, frutto della medesima “insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma aspettandosi risultati differenti”. Per ottenere risultati differenti dobbiamo fare cose differenti e occorre un governo differente. La prima cosa differente che una sinistra al governo dovrà fare, per l’Italia e per l’Europa di cui è parte fondamentale, è una riforma per cambiare le attuali regole della finanza. Non esiste nessuna sinistra possibile senza una radicale riforma del capitalismo finanziarizzato. Se non si parte prima di tutto da qui, si lavorerà sempre ai margini della crisi, senza mai toccare il cuore del problema. Da qui bisogna partire, dall’introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie; dal separare le banche di risparmio dalle banche di affari; dal mettere il freno alla speculazione finanziaria; dal prevedere e applicare sanzioni a chi spaccia titoli spazzatura con rating positivi fasulli. E dal riportare dentro il lessico politico una parola – la parola “patrimoniale” – oggi bandita in Italia a differenza che negli altri paesi d’Europa dove costituisce viceversa il metro delle misure più elementari di equità sociale. Sono proposte ampiamente note, dibattute da tempo nelle varie sedi internazionale, reclamate da diverse parti. Ma nessun governo, né in Europa né in America o altrove, le ha mai tradotte in azione. Se non si parte prima di tutto da qui, si continuerà a girare a vuoto attorno alla crisi per tornare al punto di prima come in un tragico e beffardo gioco dell’oca, ed essa si riproporrà a breve distanza di tempo esattamente come prima, già ne abbiamo i segnali.
23. E insieme alla riforma della finanza da portare in Europa, la sinistra al governo dovrà presidiare allo scopo di attuarla la Costituzione Repubblicana. Essa è già da tempo al centro del dibattito pubblico, per essere cambiata, ridotta, emendata, riscritta. Saggi, tecnici, esperti presunti ruotano attorno ad essa per smontare pezzi, aprire varchi, introdurre premierati e presidenzialismi. Hanno in mente, questo in realtà stanno tentando, un percorso controriformatore della nostra carta costituzionale. Nessuno di costoro ha levato una parola a commento del recente rapporto della più grande banca esistente al mondo, la J.P. Morgan, che considera le Costituzioni democratiche di diversi paesi, a cominciare dalla nostra, un ostacolo all’espansione globale del capitalismo per il solo fatto di sancire come inviolabili i fondamentali principi della tutela del lavoro e dei diritti acquisiti della persona. Occuparsi della Costituzione Repubblicana, per la sinistra al governo, vuol dire considerarla come un programma politico da realizzare, tanto nella sua parte valoriale dei principi fondativi del Paese quanto nella parte economica e sociale. La Costituzione disegna la democrazia di un paese. Essa non è divisibile tra democrazia praticata nella società e democrazia sospesa o ritagliata su immagine e misura del capitale nella fabbrica, come invece viene concepita dall’attuale direzione della Fiat. E’ questa una concezione che fa della democrazia uno strumento adoperato allo scopo di rovesciare il diritto e rinchiudere il lavoro in un recinto di puro asservimento. Cambiare le regole della finanza, attuare la Costituzione sono i due punti di partenza di un percorso che porta, dopo un ventennio, la sinistra ad archiviare il berlusconismo come cultura politica, come modello sociale, come fenomeno dell’immaginario e di una cultura diffusa del senso comune. Significa, in sostanza, definire la sinistra in Italia come campo alternativo a quello della destra.
24. Il governo delle larghe intese è frutto tanto della paura del Partito Democratico di andare incontro al nuovo che viene dalla società italiana pur dentro un voto politico così controverso, come del tentativo di mettere in campo un progetto politico di risposta alla crisi guardando alla forma della grande coalizione con la destra politica come scenario di prospettiva, non solo di emergenza. La sua nascita sancisce una lesione del vincolo di fiducia con grande parte del proprio elettorato, un rovesciamento del mandato popolare e ripropone il mito della governabilità insieme a quello dell’emergenza perpetua, sostituisce l’orizzonte del cambiamento che, a partire dalle primarie, si stava facendo faticosamente strada. I contenuti della sua agenda politica, i pochi e controversi fatti fin qui prodotti, l’inerzia dei continui rinvii, ne segnano la natura restauratrice, a cui si aggiunge il condizionamento pesante e costante del destino politico e personale di Berlusconi. E la stessa decisione politica, quando è assunta come nella vicenda dell’IMU per sottostare al ricatto programmatico e politico della destra, rivela in pieno la sua logica socialmente e moralmente iniqua di mettere sul medesimo piano chi arriva a possedere una casa al prezzo dei sacrifici di una vita da chi ostenta ricchezze patrimoniali. Nei fatti, il governo delle larghe intese porta l’intero centrosinistra più che ad un arretramento, verso la sua implosione. Stretto nella paralisi di opzioni alternative, almeno guardando ai programmi di governo con cui i due principali partiti che lo sostengono si sono presentati al voto, fa del rinvio dei problemi la propria filosofia di sopravvivenza politica. Nessuna scelta strutturale è fin qui venuta né potrà venire dal governo delle larghe intese proprio a causa della natura stessa della sua origine.
Il Partito Democratico diventa ancor di più un problema politico, italiano ed europeo, di primaria grandezza. Il centrosinistra di cui si era faticosamente avviata la tessitura con le primarie e il programma della coalizione Italia Bene Comune, è ora un campo interamente da costruire, sul piano della cultura di governo, della grandi scelte politiche, della sua forma organizzata. In questo quadro il Partito Democratico non è il nostro destino predeterminato. La costruzione difficile, conflittuale, di un rapporto tra forze diverse è possibile soltanto a partire da una scelta di fondo che ha come metro di misura e di relazione la reale prospettiva di cambiamento del paese e di alternativa politica. Noi ci sentiamo impegnati a sviluppare verso il Partito Democratico, i suoi gruppi dirigenti, il suo elettorato, ogni forma di confronto che si proponga come fine la costruzione di una nuova coalizione, alternativa nei temi dell’agenda politica del paese a quella della destra.
Speculare e simmetrico all’incertezza e alla paura verso il nuovo che ha portato il Partito Democratico a compiere passi all’indietro, è risultato, sino ad ora, il comportamento politico del Movimento 5 Stelle che dopo aver raccolto il bisogno di voltare pagina di tanta parte dell’elettorato sceglie la contrapposizione apocalittica che lo fa essere chiuso ad ogni alleanza per il cambiamento.
25. Noi, Sinistra Ecologia Libertà, sentiamo forte l’urgenza di costruire per l’Italia, e insieme per il peso che essa può esercitare in Europa, un nuovo punto di riferimento: la sinistra del futuro. Oggi, come nel nostro primo congresso di tre anni fa, questa è la partita vera da riaprire per mettere in campo un’alternativa alla destra e al ciclo del berlusconismo. In questo arco di tempo abbiamo iniziato con passione e convinzione un cammino forti di un’idea che proprio il punto di precipizio in cui siamo giunti, rende urgente, necessaria. L’idea che le nostre società, e quella italiana più di altre, possono costruire il loro nuovo equilibrio solo a partire dai valori della giustizia sociale e delle libertà e i diritti delle persone. Qui è il cuore antico e nuovo della sinistra. Insieme all’altro valore fondativo di una sinistra del futuro: quello dell’ecologia come salto di civiltà per uno sviluppo che non sia mai più dissipazione dei beni finiti, né devastazione degli ecosistemi ma dia senso nuovo al vivere associato, alla relazione tra la specie umana e le altre specie, da quelle animali intesi come esseri senzienti, a tutto ciò che è inerte ma prezioso per noi in quanto deposito di memoria e di cultura. Diritti, legalità, ecologia sono l’armatura di un nuovo modello in grado di esprimere un'idea alternativa di società dove prevalgano la bellezza, l’equità, la democrazia e in particolare un nuovo modello urbano che si contrapponga alla città costruita da un mercato senza regole che ha prodotto squallide periferie, aggredito centri storici, drogato il mercato edilizio rendendo inaccessibile la casa a milioni di famiglie.
E’ un cammino che si compie su di un terreno che addensa le tracce di pesanti sconfitte e dove ancora ingombrano le macerie del passato. Qualcosa che richiede ad ogni passo la paziente ricostruzione di culture politiche, di forme dell’organizzazione, di sistemi di alleanze. Ed è un percorso che non possiamo né intendiamo fare da soli, chiusi nel nostro perimetro di partito che proclama certezze e autosufficienze o sventola bandierine. Avvertiamo il forte limite della nostra pratica politica, l’insufficienza delle nostre procedure di vita democratica interna e di formazione dei gruppi dirigenti, della qualità ed efficacia delle nostre iniziative. La qualità della politica, la sua radicale riforma, ci riguarda direttamente. Senza andare al cuore di questo problema non potrà nascere nessuna sinistra che sia di alternativa e di cambiamento. La questione della soggettività politica della sinistra è una questione dirimente: per il pensiero, per il fare, per le forme della politica, per le pratiche. Occorre su questo un discorso di verità su di noi, sul divario che si allarga tra ciò che vogliamo essere e ciò che siamo nel modo attuale di fare politica. E’ un discorso di verità che richiede analisi, conoscenza, lettura delle forme e delle pratiche, invenzione e creazione di un nuovo agire politico. Un discorso di verità sulle forme della politica e su quelle della rappresentanza, senza le quali non è possibile alcun discorso sulla qualità della nostra democrazia, mette in primo piano non solo l’insufficienza della forma-partito come strumento del fare politica oggi, ma pone al centro della nostra riflessione e della nostra ricerca il problema profondo e irrisolto di come la crisi della sinistra abbia modificato ognuno di noi nell’esprimere e rappresentare la politica.
26. Vogliamo allora stare in un campo aperto, connettere ed intercettare in questa nostra impresa tutto ciò che si esprime dentro il cuore pulsante di una società alla ricerca, nelle sue più diverse forme di aggregazione, di una alternativa all’agonia politica di un paese umiliato. Ad associazioni, movimenti, singole soggettività e personalità espressioni di culture critiche dello stato di cose presente e impegnate come noi in questa impresa manifestiamo la volontà e la pratica dell’ascolto, del confronto, dell’incontro. Della contaminazione. Non abbiamo sovranità da presidiare e da difendere, perché questa ricerca, questa costruzione non dovrà mettere insieme ceti politici custodi gelosi del proprio circoscritto potere, ma idee, culture, esperienze, pratiche politiche nuove. Noi mettiamo a disposizione le nostre per dare senso a questo progetto. E’ così che potrà sorgere quella politica buona che oggi manca in questo nostro Paese. Essa potrà esistere se insieme sapremo organizzare luoghi, spazi alternativi alla deriva individualistica che oggi ci segmenta e ci frantuma in quel muto distacco dove il cittadino sempre più si sente suddito chiuso nel proprio rassegnato rancore. L’approdo di una sinistra che si costruisce esplorando un campo aperto e largo dentro il cuore pulsante della società è un nuovo soggetto politico per l’Italia. SEL deve lavorare dunque per un processo di aggregazione e confronto che porti alla costruzione di una nuova forza autonoma della sinistra, popolare, plurale, unitaria e innovativa. Non la sommatoria di frammenti di ceto politico teso all’autoconservazione, ma una nuova esperienza capace di aggregare risorse per produrre capacità di iniziativa ed elaborazione. Il rilancio di una autonomia politica e culturale della sinistra e la costruzione di una coalizione di governo trasformatrice sono due obiettivi non in contrapposizione ma oggi inscindibili. La costruzione di un’alleanza capace d’innovazione non è infatti, oggi, un dato scontato ma un obiettivo da conquistare per il quale è necessario si batta un soggetto della sinistra forte. La scelta non è dunque “rinchiudersi nel partitino” né tantomeno sciogliersi nell’indistinto “campo largo dei democratici”, ma costruire una sinistra più larga di noi, capace di coniugare governo e trasformazione ponendola in relazione con le domande della società. Dobbiamo metterci in relazione con la domanda sociale che chiede di rompere con la religione dei vincoli di bilancio che ha pesato a sinistra e aprire un dialogo con l’istanza di cambiamento e con la critica alla degenerazione dei partiti che hanno alimentato l’astensione o il voto al Movimento 5 Stelle. Va ricostruito un rapporto con quella sinistra che non ha creduto a sufficienza nella nostra proposta e che oggi cerca una risposta più convincente. Ma questo ruolo e questo processo per essere vero e con i piedi ben piantati nella realtà non si costruisce come rapporto tra stati maggiori dei partiti e dei movimenti, si costruisce producendo fatti politici, stando sin da ora nei processi reali costruendo relazioni e nuovi rapporti con associazioni, gruppi, singole personalità con cui definire patti ed accordi anche su singole campagne. Perché non esiste società strutturata, non esiste democrazia vitale che non si alimenti della contesa trasparente e vivificante di partiti e soggetti politici. Essi sono - così recita la nostra Costituzione - la democrazia che si organizza. Va rimesso in gioco il senso profondo dell’articolo 49 della Costituzione sulla funzione dei partiti politici in Italia e sull’idea di democrazia rappresentativa che esso delinea come campo di tensione tra lo Stato e la società.
27. Oggi, e da tempo, non è così. Oggi definiamo “partiti” meri agglomerati di potere, strutture personali, cordate di ceti politici o costruzioni di marketing aziendalistico volti ad occupare e a svuotare istituzioni pubbliche, settori vitali dello Stato, oltre che a conoscere la società di oggi dalla lettura settimanale dei sondaggi anziché dal praticare sul campo le problematiche che essa esprime. Sono partiti senza più società, come è stato detto. Espressioni velleitarie di una politica chiusa in sé stessa, distante dall’intreccio con la vita reale dei cittadini che da essa sempre meno si sentono rappresentati. Ma quando la politica ha un senso, quando ha un fine, quando interpreta la coscienza civile e morale di un popolo, lo strumento attraverso cui essa si esprime e si consolida è il soggetto politico. E soggetti politici capaci di organizzare la rappresentanza e di selezionare una classe dirigente, portatori di visioni e di valori tra di loro alternativi dentro una competizione democratica, rappresentano il lievito di una società che torna ad essere dinamica, protesa verso un futuro di comunità aperta. Chi rinuncia a considerare il soggetto politico uno snodo indispensabile alla democrazia di un paese, in nome di una esclusiva democrazia di rete senza più corpi intermedi come partiti e sindacati, dove la politica si gioca soltanto nel rapporto fiduciario e subalterno tra il capo e il suo popolo, rinuncia alla strada che conduce ad una democrazia matura per intraprendere un sentiero, già tristemente praticato nella storia europea e italiana, che può avere come sbocco un esito autoritario. La stessa democrazia diretta non può essere contrapposta a quella rappresentativa, poiché essa è un valore che esprime complessità, forme permanenti e costruttive di partecipazione, protagonismo e dialettica dei diversi soggetti, in un rapporto fecondo con le diverse forze in campo.
La sinistra per cui lavoriamo è quella che ridà linfa e vigore a tutta la democrazia italiana, non solo a quella della propria parte. Ciò vuol dire per noi auspicare e favorire, dentro la riorganizzazione di un nuovo sistema politico del Paese, l’approdo democratico della stessa destra politica nel segno del riconoscimento pieno e reciproco dei valori costituzionali come unico fondamento di una contesa politica aperta per l’alternativa al governo dell’Italia. Non esistono pacificazioni nazionali da compiere, ma alternative politiche da costruire attraverso l’opzione di valori, di programmi, di alleanze sottoposte alla decisione popolare sulla base di regole democratiche, a partire da una nuova legge elettorale che consenta effettivamente in modo chiaro di esprimerle.
28. Le elezioni per il prossimo Parlamento Europeo risulteranno uno spartiacque nel difficile processo di costruzione dell’Europa politica ed assumeranno tutti i caratteri di una nuova fase costituente del nostro continente. Abbiamo il compito, urgente, di costruire una proposta politica che punti al miglioramento delle condizioni di vita delle persone, se vogliamo sconfiggere riflussi identitari, xenofobi, antieuropei che si alimentano della disperazione e della precarietà nella quale sono precipitati milioni di donne e di uomini in ogni parte d’Europa con le politiche di austerità e di taglio delle spese sociali. Occorre un progetto che veda l’Europa come il luogo di una grande e nuova opportunità per un mondo più giusto e aperto alla vita e al futuro. Un progetto che riprenda il valore cosmopolita e federalista dell’Europa pensata da Altiero Spinelli. Le emergenze sociali, economiche e ambientali che l’Europa ha di fronte a sé non potranno essere affrontate e risolte dentro l’attuale assetto istituzionale e delle sue pratiche decisionali intergovernative. Occorre viceversa puntare ad un autentico processo costituente dell’Europa che inizia da una revisione degli attuali Trattati e dalla costruzione dell’Europa politica. Oggi l’Unione Europea non parla con un’unica voce, ha un parlamento ma non un governo. La strada della nuova Europa è quella di una Unione di tipo federale, rispettosa delle diversità esistenti e dotata di istituzioni economiche, finanziarie e fiscali realmente comuni e democraticamente controllate. Al Fiscal Compact con il quale l’Europa di oggi ha imposto ai suoi stati membri la logica del puro rigore e del pareggio di bilancio, contrapponiamo l’Europa del Social Compact, un patto sociale fondato su un piano economico condiviso, su politiche di occupazione tra loro coordinate ed eque, sull’estensione dei diritti, sull’accesso ai servizi pubblici essenziali, sul reddito minimo garantito. Le risorse finanziarie necessarie si baseranno su un bilancio europeo che preveda politiche fiscali fondate sulla tassazione delle rendite finanziarie, sulla fiscalità green, sul sostegno a start-up per imprese innovative e imprenditorialità giovanile e femminile. Un progetto per l’Europa accogliente, ecologica, solidale non può tuttavia limitarsi alle riforme dell’assetto istituzionale. Esso deve trovare forza ed ispirazione dal diretto protagonismo delle sue cittadine e dei suoi cittadini, elemento vitale per un autentico processo costituente che restituisca sovranità alle persone, ai loro bisogni e diritti. Europa come nuovo spazio pubblico di promozione e di tutela dei beni comuni, dell’acqua e dell’aria, del cibo, della salute, dei saperi, al di fuori di ogni mercificazione. Un’Europa che abbandoni la dipendenza dai combustibili fossili per sostenere innovazione tecnologica e ricerca, fonti energetiche rinnovabili. Un green new deal europeo incentrato su equità e giustizia ambientale e sull’inalienabilità dei beni comuni è la strada di questa nuova Europa.
29. In Europa, il luogo di una nuova sinistra italiana è il Partito del Socialismo Europeo, inteso come il campo largo e plurale che contiene e rappresenta nella propria politica continentale l’alternativa al polo conservatore. Dentro questo campo la nuova sinistra italiana può e deve portare il carico delle culture critiche che l’attraversano e la compongono ed essere punto di raccordo con altre esperienze politiche, come i Verdi e la Sinistra Europea, aperte a definire un comune spazio europeo largo che abbia come fine la costruzione di nuove strutture comunitarie nel segno del cambiamento e della trasformazione. Intendiamo far parte di questo campo prescindendo da ogni approdo ideologico, ma per contribuire ad allargarlo e a modificarlo affinché nessun solco sia tracciato verso quelle identità ed esperienze proprie di altre culture della sinistra che si muovono in senso progressista, ecologista, europeista. La famiglia del socialismo europeo dovrà misurare la sua effettiva alternatività al polo conservatore tanto sul nodo pace e guerra quanto sulla via d’uscita dalla crisi. La politica fin qui espressa dal governo socialista francese sulla situazione siriana è andata invece nella direzione opposta. Né la politica delle “grosse coalizioni” va oltre le compatibilità date, e subite, collocandosi su un’altra strada rispetto alla messa in atto di politiche economiche, sociali, ambientali alternative al quadro esistente. Ecco perché riteniamo che quel campo debba risultare il luogo dell’incontro di culture e di pratiche politiche differenti, non riconducibili all’unica tradizione socialista. Vanno superate vecchie appartenenze oggi accomunate da sconfitte e da contraddizioni paralizzanti.
Una sinistra che guardi al futuro è, già oggi, il luogo che si batte per una cultura dei diritti umani, dei diritti civili e di libertà così fragile e incerta oggi nel nostro paese. Il diritto alla propria identità sessuale, il diritto dei migranti, delle seconde generazioni, quello dei rom. Il diritto dei bimbi nati da genitori stranieri di ottenere la cittadinanza italiana. Questa è già l’Italia del futuro, un paese plurietnico che considera il valore e la pratica di ognuno di questi diritti come il segno di una società vitale, dialogante, aperta all’altro. Per questo non è più accettabile che l’Italia sia tenuta, da parte di una politica miope e distante da chi pure vorrebbe rappresentare, ai margini dell’Europa che su questo terreno ha compiuto passi importanti in avanti. Il diritto fondamentale attorno a cui va costruita la sinistra è quello delle giovani generazioni alla vita, al bisogno di futuro, alla possibilità di pensare e realizzare il proprio progetto esistenziale con autonomia e libertà, senza essere costretti ad emigrare dal proprio paese per cercare altrove opportunità che oggi qui sono negate. Proprio l’acuirsi della crisi economica motiva per noi l’intensità di una battaglia per i diritti, esposti mai come in questa fase al rischio di un dissolvimento e di un arretramento di portata storica.
Questo nostro cammino, né facile né breve, comincia già oggi e il congresso che ci apprestiamo a svolgere costituirà anche per noi una prova dove praticare un confronto, costruire un percorso, indicare una prospettiva, operare quell’apertura e quella connessione con le tante potenzialità che la sinistra in Italia contiene e che costituiscono, nella ricchezza delle differenze e delle molteplicità, una speranza per il futuro su cui occorre fare leva. Esprimiamo oggi una netta opposizione ad un governo che consideriamo innaturale e del tutto insufficiente ai problemi che il nostro Paese ha davanti a sé. La pratichiamo nei luoghi della società che subiscono l’amputazione della crisi, mettendo in campo una cultura di governo, di proposta, di alternativa come quella che dall’inizio della legislatura esercitano i nostri gruppi parlamentari di Camera e Senato. Per rendere la nostra opposizione più efficace, per costruire ascolto, confronto e condivisione di una agenda nuova delle priorità dell’Italia e dell’Europa abbiamo dato vita ad una campagna – La strada giusta – che esprime attraverso le priorità che proponiamo il senso di una sinistra che si misura con le sfide aperte. Una campagna che si svilupperà sino alla scadenza delle elezioni europee indicando misure alternative nelle politiche economiche e fiscali, sociali e dei saperi.
Il nostro obiettivo politico è far cadere al più presto un governo che galleggia sui problemi drammatici del paese e metterci al lavoro per aprire un’altra strada. La vogliamo ricercare, anche qui, non da soli ma parlando al Partito Democratico affinché compia la scelta di un’alternativa alla coabitazione innaturale con la destra; all’elettorato del Movimento 5 Stelle che sente tutti i limiti e le insufficienze di un voto innovativo proteso al cambiamento e che ora corre il rischio, a pochi mesi dall’esperienza parlamentare, di finire sterilizzato nella scelta del proprio isolamento; alle donne e agli uomini, ai giovani delusi e rassegnati che hanno rinunciato persino all’esercizio del voto dinanzi a una politica percepita a lungo come assente dai loro bisogni. Consideriamo di fondamentale importanza il sentimento popolare che cresce, al di là dei diversi soggetti organizzati, in nome della difesa e dell’attuazione della Costituzione e che investe parti ormai rilevanti della società. Personalità, associazioni, movimenti che avvertono il bisogno di cambiare il Paese a partire dai valori e dai principi costituzionali, per mettere la democrazia, i diritti, la lotta alle diseguaglianze, al centro di un nuovo impegno comune. Non è in alcun modo una battaglia puramente difensiva o nostalgica della Carta. Essa ha invece un senso nuovo nel considerare la nostra Carta Costituzionale come un documento fondativo che assomma per intero tanto il valore della civiltà liberale quanto il suo andare oltre, ponendo su un terreno più avanzato proprio quei nodi sociali ed economici oggi messi in crisi dal trentennio delle politiche liberiste.
30. Il popolo dell’alternativa è già una realtà in movimento. E’ il popolo che ha individuato la natura sociale del berlusconismo come disintegrazione di ogni spazio pubblico e che si è organizzato attorno alle battaglie di difesa e custodia dei beni comuni come l’acqua pubblica. E’ il popolo che considera il lavoro come cartina al tornasole della qualità della convivenza e della democrazia, che vive le diversità come un valore in sé e ha come orizzonte dei propri comportamenti e delle proprie pratiche la fine del rapporto gerarchico e “militare” del genere maschile verso il genere femminile, che affronta la grandiosa questione della precarietà sul versante che la può sconfiggere alla radice, quello della modifica delle forme produttive e delle relazioni industriali. Solo andando al cuore della critica culturale del berlusconismo che in questi vent’anni ha plasmato il senso comune del Paese potrà emergere la possibilità di una nuova egemonia, di una diversa idea di società nella quale sia finalmente percepibile la reale, alternativa differenza tra destra e sinistra in Italia.
Aprire dunque un’altra strada. Di questo discuteremo, su questo ci confronteremo nel nostro prossimo congresso. L’abbiamo definito, pensato, strutturato come un incontro politico aperto e vogliamo che esso diventi un luogo di pratiche politiche distanti da vecchi e inconcludenti politicismi per far maturare un’esperienza del tutto nuova. Ci sarà indispensabile, per farlo, insieme alla nostra volontà e determinazione, la disponibilità di quelle tante soggettività, personalità, con cui in questo tempo abbiamo scambiato l’ascolto e il confronto, le culture e le esperienze, trovando e costruendo insieme sintonie e percorsi per aprire una possibilità, un’alternativa, una speranza. Il congresso è loro allo stesso modo di come è nostro, per spostare insieme più avanti la prospettiva di un cambiamento del nostro Paese.
Sentiamo di stare dentro un grande e sconvolgente mutamento che pare non avere fine, pare non trovare un punto di assestamento, di equilibrio. Esso tocca ogni aspetto delle nostre vite, ovunque e di chiunque. E di tutte le crisi che compongono “la grande crisi”, forse la crisi del futuro, di un futuro che rompe ogni filo con il presente, è la più complessa delle crisi con cui oggi ci misuriamo. E “l’eterno presente” in cui siamo precipitati genera disperazione e angoscia, paura e precarietà, dominato com’è dalle forme di un’economia che non solo nelle sue pratiche ma ancor prima nel suo pensiero allontana da sé passioni e speranze umane, tutto ciò che non è calcolabile nei termini esclusivi del profitto. Ne usciamo se la politica che abbiamo in mente si accosta ad un nuovo pensiero. Tutte le diverse crisi che abbiamo qui richiamato sono altrettante crisi di pensiero, crisi dell’educazione contemporanea di leggere e guardare il mondo. La nostra conoscenza è ormai sterminata, si nutre di mezzi e di tecnologie mai conosciute fin qui, eppure non giunge ancora al punto di essere conoscenza dei problemi globali, fondamentali, fino al paradosso di un mondo che implode di informazioni a cui non corrisponde una reale conoscenza della trama che lo spieghi nella sua realtà. Abbiamo invece bisogno di pensare la politica in modo globale, planetario, e abbiamo bisogno di un pensiero che coltiva la reciprocità di relazione tra le diverse parti e il tutto. Qui è il senso del nuovo pensiero ecologico, di una conversione che pensa insieme economia ed ecologia, diversità culturali e patrimoni biologici. Anche la nuova politica è quella che pensa a partire dalla complessità, che capovolge e supera ogni concezione antropocentrica, l’idea dell’uomo quale unico soggetto nel mondo degli oggetti da usare, consumare, distruggere. Da un nuovo pensiero e da una nuova politica potrà scaturire quel che oggi completamente manca al nostro modo di affrontare la crisi, le crisi: la coscienza di un destino comune del futuro, di ciò che ci attende e di ciò che saremo. La politica può ricomporre il tempo oggi frammentato, disgiunto. E nel tempo ricomposto il destino comune di futuro riguarda insieme il passato e il presente della nostra storia, di ogni nostra storia. La speranza di costruire questa politica dipende da noi, perché per ognuno di noi vale il medesimo pensiero, il medesimo impegno: “… volgiti e guarda il mondo come è divenuto, poni mente a che cosa questo tempo ti richiede”. La sinistra del futuro parte già adesso da qui.
Settembre 2013
Download PDF del documento congressuale "La strada giusta"
Gli emendamenti presentati come da Regolamento, in accordo con i firmatari, sono stati accolti ed integrati nel Documento del Congresso.
- La Commissione nazionale del Congresso -
Emendamenti (assunti dal documento) a firma Calzolaio, Cento e altri. | Download PDF |
Emendamento (assunto dal documento) a firma Auleta, Ciccone e altri. | Download PDF |
Regolamento del 2° Congresso di Sinistra Ecologia Libertà
E’ convocato il 2° Congresso di SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ con all’ordine del giorno la discussione e l’approvazione dei documenti politici, le eventuali modifiche allo statuto e l’elezione degli organismi dirigenti e di garanzia.
Si svolgeranno i congressi di federazione, regionali e nazionale.
I Congressi di federazione si dovranno svolgere dal 7 novembre al’8 dicembre 2013.
I Congressi regionali, si dovranno svolgere dal 8 dicembre 2013 al 12 gennaio 2014.
I Congressi delle/ei iscritti all’estero si dovranno svolgere dal 15 dicembre 2013 al 12 gennaio 2014 secondo regole che saranno a tal fine determinate dalla Commissione nazionale per il Congresso.
Il Congresso nazionale si svolgerà è dal 24 al 26 gennaio 2014 (**).
Il 2° Congresso di SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ si svolgerà su documenti politici emendabili, senza che ciò determini alcuna forma di rappresentanza negli organismi dirigenti.
Il Coordinamento nazionale, dopo aver presentato alla discussione della Presidenza nazionale una proposta di documento politico e di regolamento congressuale, li sottopone all’approvazione dell’Assemblea nazionale che può emendarlo con il voto favorevole della maggioranza assoluta degli aventi diritto.
E’ possibile la presentazione di emendamenti alternativi compatibili, a giudizio della Commissione nazionale per il Congresso, con l’impianto generale dei documenti politici entro e non oltre sabato 19 ottobre 2013 se firmati dal 10% dei componenti l’Assemblea nazionale (pari a 22 firmatari) oppure da 625 iscritti a SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ presenti in almeno 5 regioni al 31 dicembre 2012, dove il numero delle firme per ciascuna regione non può superare il 30% (188 firmatari) del numero di firme totali.
I presentatori di emendamenti non possono sottoscrivere documenti alternativi a quello che intendono emendare.
E’ possibile la presentazione di documenti alternativi entro e non oltre sabato 19 ottobre 2013 se firmati dal 15% dei componenti l’Assemblea Nazionale (pari a 33 firmatari) o 1.200 iscritti a SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ presenti in almeno 5 regioni al 31 dicembre 2012, dove il numero delle firme per ciascuna regione non può superare il 30% (pari a 360 firmatari) del numero di firme totali.
L’Assemblea nazionale elegge la Commissione nazionale per il 2° Congresso di SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’.
La Commissione nazionale stabilirà, in accordo con gli organismi di federazione e regionali, il calendario di svolgimento dei Congressi e l’elenco dei/delle compagni/e chiamati a concludere i Congressi.
Le Commissioni per il Congresso, a tutti i livelli, sono composte da 5 componenti.
La Commissione nazionale verrà eletta all’Assemblea nazionale del 28 settembre 2013 con l’incremento successivo di una/un componente che verrà indicato alla Commissione nazionale dalla/dal prima/o firmataria/o di ogni documento alternativo presentato nei termini previsti all’art. 2, ultimo capoverso del presente regolamento (15 ottobre).
Le assemblee di federazione e regionali, con medesime modalità, eleggono la Commissione per il
Congresso nelle proprie Assemblee, da svolgersi entro il 30 ottobre 2013.
La Commissione nazionale per il Congresso da’ inizio al proprio incarico il 1 ottobre 2013.
Tutte le altre Commissioni inizieranno il proprio incarico dal 30 ottobre 2013.
La Commissione per il Congresso ha il compito di:
Sono convocate dal 15 ottobre al 6 novembre 2013 assemblee pubbliche di discussione dei documenti politici in ogni territorio. Le modalità di svolgimento e il numero di tali assemblee sono concordate dalle federazioni con il Coordinamento nazionale.
Per promuovere la partecipazione più ampia possibile, alle assemblee sono invitati esponenti e individualità delle organizzazioni sindacali e studentesche, delle associazioni a carattere nazionale o locale e del mondo dell’intellettualità diffusa, delle professioni e della cultura con cui SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ mantiene rapporti di carattere politico.
Tutte le federazioni sono tenute allo svolgimento del proprio congresso.
I circoli possono svolgere assemblee preparatorie.
Le federazioni delle aree metropolitane con più di 500 iscritti possono svolgere più assemblee congressuali di circolo o di zona in accordo con la Commissione nazionale per il Congresso. Tutte le assemblee convocate possono presentare emendamenti, documenti di carattere locale, ordini del giorno, candidature per le/i delegate/i ai congressi regionale e nazionale e per gli organismi dirigenti e di garanzia della federazione. La Commissione federale per il congresso è tenuta a raccogliere tutte le proposte politiche approvate e le candidature emerse. La Commissione federale per il congresso, in accordo con la
Commissione nazionale, fissa le modalità, la sede, il giorno e l’orario delle votazioni.
Nell’elezione dei/delle delegati/e ai congressi superiori e degli organismi ad ogni livello va riconosciuta la democrazia di genere come elemento costitutivo di SEL, pertanto, si dovrà garantire che nella scelta dei delegati e delle delegate e degli organismi dirigenti e di garanzia la presenza di un sesso rispetto all'altro non sia inferiore al 50%.
Platea
Le platee dei Congressi provinciali sono costituite dagli iscritti/e 2013 a SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ alla data del 15 ottobre 2013 e dagli iscritti 2012 che abbiano rinnovato la tessera 2013 entro e non oltre la data di svolgimento del congresso.
Al Congresso partecipano anche nuove/i iscritte/i dopo la data del 15 ottobre 2013, che avranno diritto ad essere eletti negli organismi e come delegati ai Congressi superiori ma senza diritto di voto.
L’Ufficio Nazionale del Tesseramento provvede all’invio dell’elenco dei tesserati 2013 alla data del 15 ottobre 2013 alla Commissione del Congresso della Federazione.
Modalità di svolgimento
Lo svolgimento del Congresso di SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ deve essere comunicato agli/alle aventi diritto almeno 7 giorni prima del suo svolgimento con indicazione del luogo, degli orari del dibattito e delle votazioni. E’ valida la convocazione via mail con certificazione dell’avvenuta consegna.
Lo svolgimento del Congresso di SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’ deve essere largamente pubblicizzato in modo da garantire il suo carattere “pubblico”.
Va altresì previsto l’invito a parteciparvi alle forze politiche della sinistra, quelle democratiche, alle realtà sindacali, associative e di movimento presenti sul territorio.
All’apertura del Congresso gli organismi dirigenti presentano le proprie dimissioni e ogni loro funzione è assunta dalla Commissione per il Congresso.
Il Coordinamento uscente, nella persona del suo/a coordinatore/coordinatrice ha l’onere di proposta alla platea della Presidenza del Congresso che viene messa ai voti con modalità di voto palese.
La Presidenza propone quindi la nomina a voto palese dei Gruppi di proposta – Politica, Verifica poteri,
Elettorale, Statuto –, determina i tempi e le modalità del dibattito, le modalità di presentazione dei contributi politici e l’orario delle votazioni.
Il Congresso è introdotto da una relazione del/della coordinatore/coordinatrice uscente ed è seguito dal dibattito.
La relazione conclusiva del Congresso sarà tenuta alla fine del dibattito da un/una compagno/a indicato/a dalla Commissione nazionale.
Il Congresso di Federazione procede con il voto ai documenti, agli emendamenti e/o agli odg che fossero stati proposti e accettati dalla Presidenza. Tutti gli emendamenti al documento nazionale votati a maggioranza assoluta dei partecipanti al Congresso di federazione sono inviati al Nazionale. Quelli che non ottengono la maggioranza dei voti sono da considerare respinti.
Infine il Congresso si chiude la votazione degli organismi dirigenti, di garanzia e dei/delle delegati/e al
Congresso regionale e nazionale.
Tutti i lavori e le decisioni del Congresso di federazione dovranno essere verbalizzati e i verbali dovranno essere inviati alla Commissione per il Congresso nazionale entro 4 giorni dalla data di svolgimento.
Modalità di voto
In tutti i Congressi la modalità di presentazione delle liste per la votazione dei gruppi dirigenti e/o le/i delegate/i è su lista aperta.
La lista aperta prevede una maggiorazione dei/delle candidati/e sino al 20% delle/i eligende/i (e comunque con una maggiorazione di almeno una unità), con la possibilità di aggiungere ulteriori candidature che abbiano raccolto un numero di firme pari al 3% degli aventi diritto (ogni firmatario può sottoscrivere una sola candidatura). Sulle liste aperte si vota esprimendo un numero massimo di preferenze pari al 20% dei candidati da eleggere. (es. 100 da eleggere = preferenze da esprimere max 20).
E’ possibile presentare liste alternative laddove lo richieda almeno il 10% degli aventi diritto al voto
Qualora lo richieda almeno il 70% dei partecipanti, si potrà votare con la modalità di lista bloccata.
In ogni caso si dovrà tenere conto delle disposizioni della Commissione nazionale per il Congresso formulate per garantire il rispetto delle quote di genere del 50%.
Platea
La platea del Congresso regionale è fissata in un numero di delegati/e eletti dai Congressi delle
Federazioni, così definito:
1 delegato/a ogni:
15 iscritti/e (arrotondamento all’unità superiore o uguale ai 7,5 iscritti) per le federazioni (delle regioni)* fino a 1.500 iscritti
20 iscritti/e (arrotondamento all’unità superiore o uguale ai 10 iscritti) per le federazioni (delle regioni)* con iscritti compresi tra 1.500 iscritti e 3.000 iscritti
30 iscritti/e (arrotondamento all’unità superiore o uguale ai 15 iscritti) per le federazioni (delle regioni)* con oltre 3.000 iscritti
I dati di riferimento sono quelli relativi alla media del tesseramento degli ultimi tre anni 2010/2011/2012 così come risultanti dall’archivio del tesseramento nazionale alla data del 31 dicembre 2012. (v. tabella allegata)
1 delegato/a ogni punto percentuale ottenuto alle elezioni politiche alla Camera dei Deputati del 24 febbraio 2013, (arrotondamento superiore o uguale allo 0,5%)
Modalità di svolgimento, voto e adempimenti
Per le modalità di voto e di svolgimento dei Congressi regionali si procede in maniera analoga a quelli di federazione, se non per la composizione della platea come definito nel primo paragrafo del presente articolo.
Platea
La platea del Congresso nazionale è fissata in un numero di delegati/e, così definito:
eletti dai Congressi di federazione:
1 delegato/a ogni 100 iscritti/e (arrotondamento superiore o uguale a 50 iscritti) per federazione che tali risultino dalla media degli iscritti del tesseramento degli ultimi tre anni 2010/2011/2012 così come risultanti dall’archivio del tesseramento nazionale alla data del 31 dicembre 2012.
1 delegato/a ogni punto percentuale ottenuto alle elezioni politiche alla Camera dei Deputati del 24 febbraio 2013, (arrotondamento all’unità superiore o uguale allo 0,5%).
eletti dai Congressi regionali:
1 delegata/o ogni 300.000 abitanti così come risultanti dall’ultimo censimento Istat della popolazione del 2011.
Modalità di svolgimento e adempimenti
All’apertura del Congresso gli organismi dirigenti presentano le proprie dimissioni e ogni loro funzione è assunta dal Congresso.
Il Coordinamento uscente, nella persona del suo coordinatore, ha l’onere di proposta alla platea della Presidenza del Congresso che viene messa ai voti con modalità di voto palese.
Il Congresso è introdotto da una relazione del Presidente nazionale uscente.
Al termine della relazione, la Presidenza propone la nomina dei Gruppi di proposta – Politica, Verifica
Poteri, Elettorale, per lo Statuto – determina i tempi e le modalità del dibattito, l’orario di voto del documenti politici, degli emendamenti, delle eventuali modifiche statutarie del Congresso, degli Odg presentati e degli organismi dirigenti e di garanzia nazionali.
Il Congresso Nazionale si chiude con il voto dei documenti finali, emendamenti e Odg assunti dalla commissione Politica, delle modifiche statutarie assunte dalla Commissione per lo Statuto e della composizione dell’Assemblea nazionale e Commissione di Garanzia nazionale proposta dalla Commissione elettorale.
* Il refuso è stato così corretto dalla revisione effettuata dalla Commissione nazionale del Congresso
** Le date del Congresso nazionale sono state modificate e definite per il 24, 25 e 26 gennaio 2014, per ragioni prettamente logistiche legate alla disponibilità del Palazzo dei Congressi di Riccione, struttura congressuale all’avanguardia in Italia, realizzata con i criteri della bioedilizia e del risparmio energetico, come comunicato a tutti i componenti l'Assemblea nazionale il 19 novembre 2013
Modello verbale per i congressi regionali | Download PDF | Download XLS |
Modello verbale per i congressi di Federazione | Download DOC |
Si pubblica la tabella di distribuzione del numero dei delegati per i congressi regionali e Nazionale conteggiati ai sensi del Regolamento del 2° Congresso di Sinistra Ecologia Libertà
Tabella delegati | Download PDF |
Tutte le mail relative a quesiti, ricorsi, contributi devono
essere inviate all'indirizzo email:
congressosel@sxmail.it.
Gli invii alle mail personali non costituiscono l'ufficialità dell'invio alla Commissione
Verbale della seduta del 25.11.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 19.11.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 13.11.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 05.11.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 28.10.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 21.10.2013 | Download PDF |
Verbale della seduta del 07.10.2013 | Download PDF |
La Commissione nazionale per il Congresso, viste anche le numerose richieste pervenute sul tema, delibera che le/i fuori sede per motivo di studio e lavoro possano partecipare al Congresso della Federazione in cui si trovano anzichè a quella nella quale sono iscritte/i previa comunicazione alla Commissione nazionale entro il 7 novembre entro le ore 12.00.
Lettera della Commissione nazionale nr. 4 del 14.11.2013 - RAPPRESENTANZA DI GENERE, AVENTI DIRITTO, RUOLO COMMISSIONI (GRUPPI DI PROPOSTA) | Download PDF |
Lettera della Commissione nazionale nr. 3 del 14.11.2013 - MODALITA' DI VOTO | Download PDF |
Lettera della Commissione nazionale nr. 2 del 22.10.2013 - CALENDARIO, COMMISSIONI, INFO SITO | Download PDF |
Lettera della Commissione nazionale nr. 1 del 07.10.2013 - CALENDARI, COMMISSIONI, COMUNICAZIONI | Download PDF |
Nome |
---|
Paolo Cento |
Sergio Boccadutri |
Beatrice Giavazzi |
Tino Magni |
Daniela Santroni |
Attività forum Beta di SEL: contributo alla discussione del congresso, Forum Beta nazionale | Download PDF |
Rilanciare SEL per costruire la sinistra del Lavoro: Mario Montelisciani - L'Aquila | Download PDF |
In car pooling al congresso | Download PDF |
Contributo al dibattito congressuale: Giuliano Volpe, Professore di Archeologia - Università di Foggia | Download PDF |
Cambiamo passo, non regaliamo la sinistra a Renzi: Marco Furfaro | Download PDF |
Come dare senso al ruolo di Sel: Franco Giordano, Massimiliano Smeriglio (da Il Manifesto del 18/12/2013) | Download PDF |
Contributo al dibattito congressuale: Circolo P. Neruda, Caserta | Download PDF |
Emendamento su contenuti programmatici: Fulvia Bandoli, Edoardo Mentrasti | Download PDF |
Emendamento sulla pace: Fulvia Bandoli, Edoardo Mentrasti | Download PDF |
Emendamento su proposta politica e alleanze: Fulvia Bandoli, Edoardo Mentrasti | Download PDF |
Emendamento su Socialismo europeo: Fulvia Bandoli, Edoardo Mentrasti | Download PDF |
Contributo alla discussione congressuale di SEL: Luigi Nieri, vice-sindaco di Roma | Download PDF |
Documento assemblea pre-congressuale: Circolo Svizzera | Download PDF |
Contributo al dibattito: Roberto D'Agostino, Circolo Pasolini, VE | Download PDF |
LA RI(E)VOLUZIONE: Circolo SEL "E. Berlinguer", Dolo, VE | Download PDF |
Ordine del Giorno su Itliani all'estero: Circolo Svizzera SEL | Download PDF |
Contributo congressuale: circolo Firenze-Est | Download PDF |
"Adesione al PSE - riaprire la partita 2.0": Roberto Giorgi, coord. Rieti | Download PDF |
"Apriti SEL. Chi siamo, cosa vogliamo": Sergio Tosini, Circolo Testaccio RM | Download PDF |
"Europa, un sogno eretico": Ettore Bucci, PI | Download PDF |
"Stato di cose esistente da cambiare (con Marx) con tutte le nostre forze": Marcello Buiatti | Download PDF |
"Contributo al dibattito": Barbara Auleta, Stefano Ciccone e altri | Download PDF |
"Sel Bene Comune": Circolo "M. Di Folco", Bologna | Download PDF |
"Sud e Mediterraneo": Andrea Colasuonno, Andria | Download PDF |
"Per una classe dirigente capace e rappresentativa": Valeria Rustici e altri, FE | Download PDF |
"Risorse finanziarie e spesa pubblica.": Giuliano Ciampolini, Marisa Nicchi e altri, FI | Download PDF |
"Apriti SEL": Barbara Auleta, Stefano Ciccone, Enzo Mastrobuoni e Carolina Zincone | Download PDF |
"Facciamo LA COSA GIUSTA": Circolo SEL Firenze - Quartiere 5 | Download PDF |
In questa sezione abbiamo provveduto ad inserire tutte le date dei congressi arrivate al 31 ottobre alla Commissione nazionale alla mail congressosel@sxmail.it. Dal 1° novembre spetterà alle Federazioni l'aggiornamento (luogo, data e orario delle Assemblee, date e orari di inizio e fine del Congresso nonché orario di inizio e fine delle votazioni del Congresso, indirizzo esatto, link alla pagina SEL provinciale, ecc.) dei propri appuntamenti congressuali attraverso la pagina dedicata e i dati di accesso alla pagina dell'agenda dei coordinatori/delle coordinatrici provinciali. Sarà cura della struttura nazionale l'aggiornamento dei Congressi regionali. I nomi delle/dei garanti a concludere i congressi potranno essere aggiornati solo dopo la comunicazione della Commissione del congresso nazionale.
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